Ai confini delle realtà. Alcune note sul rapporto tra realtà interna e realtà esterna nel “fare insieme”al paziente grave

Premessa

In più di venticinque anni di lavoro nei servizi pubblici, mi è sempre stato difficile tollerare una certa sensazione di scarto tra le esperienze cliniche reali e le teorizzazioni su progetti terapeutici realizzati o ancora da realizzare. Col tempo ho anche capito che se è proprio dell‟uomo fare di tutto per adattare i propri principi alla realtà, è comunque molto frequente cercare di adattare la realtà ai propri principi, soprattutto quando risulta difficile accettare la differenza tra la realtà per quella che si presenta e quella che vorremmo che fosse. E rendendomi conto che molto spesso sono gli affetti che creano la realtà, ho cominciato a sostituire alle mie iniziali pregiudiziali ideologiche una attenzione crescente alle emozioni che permeano ogni decisione clinica.
Gli incontri con i pazienti psicotici nei padiglioni dell’Ospedale Psichiatrico “Santa Maria della Pietà”, nei corridoi del Servizio di Diagnosi e Cura dell‟Ospedale “Pertini” di Roma ed infine nelle stanze del Centro di Salute Mentale della ASL RM B, mi hanno permesso di cogliere quanto la loro vita psichica (“in quanto tale e non solo in conseguenza della loro vita reale”, Riefolo 2001), fosse per loro una fonte di dolore, di angoscia e di terrore e nel contempo per me fonte di affetti intensi e pervasivi.
Col tempo mi sono anche accorto che i miei bisogni di continue rassicurazioni, le mie paure su un abituale senso di impotenza, le fughe (immaginate o agite) nei confronti di casi difficili che seguivo, le esaltazioni circa i fugaci risultati positivi e la rabbia a stento trattenuta nei confronti dei fallimenti relazionali miei e dei colleghi più vicini, erano diventati, più che semplici imprevisti, delle abituali consuetudini delle mie giornate lavorative.
Adesso (ma solo da alcuni anni e comunque non sempre) comincio ad affiancare allo sconcerto e al timore per questi atteggiamenti, una certa curiosità sul possibile significato di tali vissuti, riconoscendo anche la fatica di integrarli con l‟esplicito desiderio di aiutare, comprendere e contenere i miei pazienti più gravi.
Ed è stato lungo questa prospettiva che ho scoperto poi di potermi anche conciliare con quegli aspetti apparentemente inaccettabili e incompatibili di questa professione, riuscendo ad avvicinarmi con meno timore a quella parte di me (e degli altri) che, nei primi anni, volevo solo ‘estirpare’ senza comprendere.
L‟incontro con la psicoanalisi ha significato per me intraprendere innanzitutto questo percorso interiore, lungo il quale ho anche compreso quanto la follia faccia paura a tutti. Fa paura a chi la prova e a chi tenta di curarla. Ma non essendo comunque una malattia, la paura è anche un segnale che qualcosa sta succedendo tra noi e il paziente, diventando in tal senso un elemento essenziale del nostro “ mestiere impossibile”.
Scrive Winnicott (1965) a proposito del lavoro degli psichiatri ( e quindi di tutti i terapeuti nel campo della salute mentale): “Dopotutto, perché i dottori dovrebbero essere più sani, in senso psichiatrico, dei loro pazienti? Nei libri di testo non si trova alcuna indicazione sul dosaggio in base al quale il dottore dovrebbe prescrivere se stesso. Scarsa infatti è la letteratura sui possibili rischi di questo genere di cura, sui vari stati di allergia che si possono provocare nei pazienti e di cui si deve attentamente spiare l’insorgere o sugli indesiderabili effetti collaterali del farmaco. Il problema principale riguarda l’uso del medico, l’intera gamma dei modi in cui il paziente può utilizzare l’esperto. Il punto centrale non è la psicoterapia specialistica, ma la circostanza che la psicoterapia passi impercettibilmente in tutto il lavoro del medico. I medici dovrebbero capire le premesse del loro lavoro. Non si tratta necessariamente di mettere in discussione ciò che si è fatto, ma chiunque faccia il medico dovrebbe essere capace di osservare ciò che fa e di occuparsi del proprio atteggiamento e delle proprie azioni, quanto dei sintomi che il paziente presenta e delle sue reazioni al trattamento”.
I servizi pubblici territoriali e la riabilitazione
E’ esperienza comune di tutti coloro che lavorano come psicoanalisti nei contesti istituzionali, constatare quanto i pazienti gravi mettono in crisi il nostro consueto modo di trattare psicoanaliticamente i disturbi mentali. I pazienti psicotici mettono in crisi il sistema terapeutico per il loro continuo atteggiamento di non-collaborazione, per le specifiche caratteristiche dei setting istituzionali, per le particolari situazioni in cui li incontriamo, per i tempi a volte molto rapidi o altre volte troppo lunghi in cui dobbiamo prendere delle decisioni per loro o con loro. Ci mettono in crisi, infine, anche per la differenza tra obiettivi terapeutici e programmi assistenziali e le necessità di controllo sociale a cui la stessa società ci sottopone col nostro mandato istituzionale.
La funzione curante dei nostri servizi è inoltre particolarmente problematica perché si svolge per lo più in contesti in cui la realtà esterna è talmente significativa da condizionare fortemente il campo di quelle regole e di quelle consuetudini codificate di un tipico trattamento psicoterapico.
Ma anche se tutto questo è sicuramente vero, è sempre più evidente che la realtà che dobbiamo organizzare o che è già presente intorno ai nostri progetti terapeutici, deve essere costituita non solo da una successione di avvenimenti reali, ma anche e soprattutto da una concretezza, diciamo così, “favorevole all’avvicinamento ad avvenimenti psichici che possiamo poi condividere mentalmente con i pazienti stessi” ( Sassolas, 2001).
Benedetto Saraceno in un suo bel libro intitolato“ La fine dell’intrattenimento” ( 1995) scrive che “la riabilitazione, grazie ai suoi scopi e ai suoi strumenti d‟azione, costituisce un evidenziatore particolarmente illuminante della principale caratteristica della psichiatria, ossia quella di essere un „intrattenimento‟ del malato”.
Il termine “intrattenere” è inteso sia nel senso di “tenere dentro”, sia nel significato di “far passare piacevolmente il tempo”. In fondo, a voler essere critici verso certe pratiche istituzionali prevalenti in psichiatria, potremmo essere d‟accordo col fatto che, un po‟ da sempre, il trattamento dei pazienti con gravi disturbi mentali è stato permeato dall‟atteggiamento di “trattenere” il paziente. “Trattenerlo” materialmente dentro delle mura, intese come luogo di ricovero o di semplice residenza, o “trattenerlo” facendogli passare il tempo con l‟uso dei farmaci, o con colloqui psicoterapici, oppure con attività ricreative e creative in ambulatori, in day hospital o anche in famiglia.
Ciò che colpisce in psichiatria, scrive ancora Saraceno, “non è l‟impotenza ma l‟assenza di critica dell’impotenza”, anche e soprattutto quando, in presenza di successi terapeutici, non si riescono a cogliere le relazioni reali fra miglioramenti e trattamenti, senza quindi individuare quali azioni, tra quelle più o meno consapevoli messe in atto, hanno concorso al miglioramento stesso.
Se riuscissimo invece a mettere in relazione avvenimenti e miglioramenti, potremmo scoprire che “non sono sempre i singoli trattamenti ad essere influenti sull’evoluzione, quanto invece le azioni che attorniano i trattamenti, quali i contesti dove il trattamento viene svolto, le motivazioni e le aspettative di chi offre il trattamento, le modalità affettive e materiali che costituiscono l‟assistenza, la continuità e la pervicacia con cui si costruiscono le proposte di vita per il paziente”. Insomma la “realtà” in cui il trattamento è inserito.
Si potrebbe allora cominciare a pensare che è proprio la rottura degli “intrattenimenti” della psichiatria a costituire la fonte, da rendere consapevole e governata, di azioni dotate di maggiore efficacia trasformativa della vita del paziente
E’ lungo tale prospettiva che occorre avviare una ricerca teorica e pratica sulle occasioni che quotidianamente operano quelle microrotture della miriade di microintrattenimenti della riabilitazione in psichiatria che, attivando nel loro progressivo realizzarsi esterna una serie di risorse, possono tra l‟altro concorrere alla ricostruzione della piena “cittadinanza” del paziente grave.
Una “cittadinanza” costituita non solo dalla restituzione dei suoi diritti formali, ma soprattutto dalla costruzione dei suoi diritti sostanziali, quali le capacità affettive, relazionali, materiali, abitative e produttive.
L’”oggetto” della psicoanalisi e gli psicoanalisti nelle istituzioni pubbliche
Conoscendo la storia dell’assistenza psichiatrica in Italia e il suo concreto realizzarsi nella pratica dei servizi territoriali, ben sappiamo come la psicoanalisi sia stata utilizzata sia come modello teorico di riferimento che come tecnica capace di essere con profitto introdotta, direttamente o indirettamente, nelle istituzioni. Questo fatto ha certamente contribuito alla evoluzione delle potenzialità terapeutiche dei servizi ed ha anche fornito nel tempo a molti operatori un modello per interpretare il senso e l’utilità dei proprio coinvolgimento emotivo verso le situazioni più gravi.
D‟altra parte ancora in molte circostanze si sono evidenziati anche i limiti di un approccio psicoanalitico tradizionale ai pazienti gravi e da molte parti si è sostenuto che non fosse psicoanalisi quello che operatori con una formazione psicodinamica realizzavano con i loro programmi terapeutici.
Ci si è spesso domandati se gli psicoanalisti potessero veramente sviluppare una loro specifica posizione che mantenesse una sufficiente preoccupazione positiva verso i propri pazienti, nonostante la gravità e a volte la violenza delle dinamiche istituzionali, “non in base ad una teoria che lo preveda, ma ad un modello che lo consenta “. Alla fine di tali riflessioni si è riconosciuto la sostanziale reciprocità, malgrado le apparenze, tra il contesto istituzionale e quello analitico in senso stretto, soprattutto quando si è cominciato a porre al centro delle considerazioni la funzione dell’analista in rapporto ai bisogni del paziente.
Si è osservato inoltre che i servizi pubblici hanno per la psicoanalisi una specificità positiva, in quanto sono necessari agli psicoanalisti per funzionare come tali verso pazienti altrimenti difficilmente curabili. Ed infine si è notato che seppure gli elementi che intervengono nel setting pubblico rispetto a quello privato cambiano notevolmente in quantità e complessità, in ognuno di questi diversi contesti, la costruzione di setting interni ed esterni ha la medesima importanza. Si è cominciato così a differenziare il metodo dalla terapia psicoanalitica, in modo tale che ogni volta che si confermava quanto nei servizi non si potesse fare psicoanalisi, ciò non escludesse affatto che si potesse essere psicoanalisti in un contesto così definito.
Assumere una tale posizione non vale solo per accogliere ed interpretare i diversi comportamenti dei pazienti gravi come altro da sé, ma serve soprattutto per analizzare l‟interazione attiva che lega i diversi interlocutori di un servizio (pazienti, operatori, familiari, istituzioni sociali) nella cornice dell’intero campo d‟intervento. E se nel caso della posizione solo interpretativa c‟è un analista (interno o esterno al servizio poco importa) distinto da un oggetto analitico che è l‟operatore o il paziente o il servizio, nell‟altra posizione, che potremmo chiamare significativamente interattiva, c’è un analista che fa una operazione su di sé, il cui esito “positivo” potrà essere solo la trasformazione del proprio oggetto analitico ( Boccara P., De Sanctis R., Riefolo G., 2004).
Realtà esterna e realtà interna nel “fare” insieme ai pazienti
Per distinguere le tecniche psicoanalitiche dal metodo della psicoanalisi è utile ricordare che dagli albori della scoperta psicoanalitiche, l‟oggetto della psicoanalisi è sempre stato il mondo interno del paziente. Le pazienti trattate nello stato ipnotico “ricordavano” esperienze di forte pregnanza emotiva e, una volta abbandonata la tecnica ipnotica, le pazienti riuscivano ugualmente a far riaffiorare alla coscienza questi “ricordi” con acuta sofferenza, ma anche con una certa remissione dei sintomi. La scoperta della psicoanalisi si basò fin dall’inizio sulla scoperta dell’esistenza di una sfera psichica che sfuggiva al controllo della coscienza e che assumeva un grande rilievo, proprio perché “interferiva” con la soluzione della patologia, al punto da ipotizzare la sua responsabilità nella formazione dei disturbi mentali stessi (Genovese C., 2005).
Anche la successiva scoperta che i “ricordi” inconsci spesso non corrispondevano necessariamente alla realtà materiale, fu di estrema importanza perchè sottolineava come la conservazione di una loro pregnanza di realtà, rendeva del tutto ininfluente, rispetto alle successive conseguenze, la distinzione tra ciò che era materialmente accaduto e ciò che era psichicamente reale. Nacque così il concetto di realtà psichica e con essa la prima teoria della psicoanalisi che cercava di dar conto della realtà psichica mediante l‟ipotesi della fantasia inconscia.
Attraverso l‟autoanalisi Freud scoprì poi che l‟inconscio e la realtà psichica distinta da quella materiale, non erano peculiari della patologia ma costituivano anzi il fondamento della nostra vita psichica in generale e quindi, da quel momento in poi, l‟oggetto della psicoanalisi diventò la realtà psichica fondata sull’inconscio, con i suoi derivati, e sul principio della sovradeterminazione.
L‟elemento distintivo della psicoanalisi è sempre più diventato il lavoro con il paziente e il metodo psicoanalitico si è sempre più caratterizzato per essere un metodo fondamentalmente clinico, tanto da far affermare ad Eugenio Gaddini molti anni dopo (1968) che “ non esiste la ricerca senza clinica, in psicoanalisi” e che “… in psicoanalisi la ricerca non è distinguibile dall’attività terapeutica”.
Un importante saggio di Stella Milano (2005) descrive in tal senso molte attività terapeutico-riabilitative di un gruppo di terapeuti di un Centro di Salute Mentale di Roma con un gruppo di pazienti gravi e ci aiuta a cogliere la profonda importanza per la psicoanalisi contemporanea “di un costante lavoro di attenzione, ascolto e attribuzione di senso a comportamenti e interazioni spesso indecifrabili, volto ad un faticoso e lento percorso di recupero, o talvolta di vera e propria costruzione, delle capacità affettive e relazionali indispensabili per le azioni della vita quotidiana”.
“Se il disturbo psicotico – scrive la Milano – rappresenta la potentissima difesa attraverso cui il paziente è riuscito, per sopravvivere, ad espellere da sé la propria realtà psichica proiettandola sulla realtà esterna, è evidente quanti ostacoli incontri un lavoro terapeutico che ha per obiettivo il recupero, almeno parziale, di un contatto con il proprio mondo affettivo”.
Un‟esperienza che si colloca tra l’immersione nel reale, dove si condividono gli oggetti concreti del linguaggio della psicosi e un’intensa esperienza affettiva, dove trova spazio l’espressione e la condivisione di emozioni, sentimenti, desideri e stati d’animo, permette proprio un avvicinamento alla realtà interna di questi pazienti, a quelle aree non disponibili della mente, che non sono affrontabili tramite un lavoro sui processi di simbolizzazione dal paziente stesso e tanto meno dal terapeuta.
La potenza dei meccanismi di espulsione da sé degli affetti e il terrore delle conseguenze di una loro espressione e riconoscimento, fanno sì che “la realtà esterna e la sua concretezza rappresentano per la maggior parte dei pazienti l’unico spazio di comunicazione con i terapeuti”, con la possibilità di mettere in gioco un’affettività più autentica e meno difensiva.
Organizzare dei soggiorni estivi, attivare periodicamente delle gite nella città, costruire delle iniziative creative intorno all’abitare o al lavorare, permette di realizzare, secondo l‟esperienza descritta dalla Milano, “una sorta di capovolgimento, nel senso di un uso profondamente diverso di quella condizione di stare fuori – fuori dalla mente – in cui sono di solito costretti questi pazienti per evitare l’angoscia che suscita lo stare dentro – cioè il contatto con il proprio mondo interno. Se il fuori rappresenta un luogo più tollerabile del dentro, in questo caso lo stare fuori non coincide più con l’abitare luoghi esterni, inanimati e immobili, ma diventa all’opposto un’opportunità per ciascuno di costruire un ponte con il proprio dentro, ri-conosciuto e condiviso nell’esperienza vissuta in gruppo. Quando durante le attività sperimentiamo insieme, pazienti e terapeuti, un piacevole senso di libertà dalla pressione legata alla routine quotidiana e un clima affettivo facilitante, l’incontro con il fuori stimola a diversi livelli, curiosità, interesse, desiderio di conoscere come gli altri stiano vivendo quell’esperienza fatta insieme e quale storia personale ciascuno porti con sé. Emergono ricordi di luoghi, di eventi, di stati d’animo, frammenti di vita che all’inizio sembra impossibile collocare in una trama ma che nel tempo si chiariscono, acquistano una dimensione spazio-temporale riconoscibile, si dispongono in un filo narrativo che diventa un patrimonio del gruppo a cui tutti potranno attingere con i propri tempi e le proprie modalità”.
Lavorare clinicamente sulla realtà esterna, il “fare” con i pazienti per “pensare” insieme a loro, può allora significare non solo modificare la realtà intorno a loro ( obiettivo che tra l‟altro non è mai di per sé sufficiente), ma anche e soprattutto andare alla ricerca di aree ignote della vita psichica, attivando aree della mente potenziali e inconsce.
Ma di quale inconscio si tratta? Da alcuni anni sono sempre più numerose le riflessioni intorno ad una disarticolazione dell’inconscio nelle sue varie forme – Sandler e Sandler (1987), Bleichmar (1999), Riolo (2000), Laplanche (2004), Mancia ( 2005) – e da alcuni category è stata più volte utilizzata la metafora dell‟inconscio non rimosso proprio per definire ciò che dell‟inconscio si struttura sulla base di particolari esperienze sensoriali che il bambino, anche neonato, vive con la madre.
Il nucleo inconscio del Sé non rimosso (Mancia, 1994) è quel luogo di iscrizione presimbolica di schemi di modulazione affettiva reciproca che contiene anche quei precursori di difese che il bambino ha costruito per fronteggiare l‟angoscia e che vengono registrate nelle forme più precoci di sistemi mnestici, al di fuori della capacità riflessiva e privi di una reale simbolizzazione. Quelle dinamiche inconsce diventano il risultato di una archiviazione nella memoria implicita di esperienze, fantasie e difese che appartengono ad un‟epoca presimbolica e preverbale dello sviluppo e che pertanto non possono essere ricordate con ricordi verbalizzabili, pur condizionando la vita affettiva, emozionale, cognitiva dell’adulto.
Messaggi e reazioni affettive che ne derivano che non possono essere rimossi proprio perché mancano le strutture neuronali adeguate ad una rimozione (cioè quelle relative alla memoria esplicita) e vengono così organizzate in altre aree cerebrali.
Le moderne scoperte neuropsicologiche relative alla organizzazione della memoria ci offrono quindi l’opportunità di ipotizzare dei circuiti sinaptici corticali e sottocorticali quali sedi delle funzioni mentali inconsce e la possibilità di identificare nella memoria esplicita ed implicita l‟inconscio rispettivamente rimosso e non-rimosso, aprendo prospettive stimolanti per una integrazione delle neuroscienze con la psicoanalisi.
Collegare questi studi al nostro discorso sul “fare” col paziente, sembra così molto utile proprio per ipotizzare che in questo tipo di esperienze cliniche si attivano dinamiche che si collegano ad un inconscio non simbolizzabile a parole, che viene ricordato attraverso fatti, comportamenti, azioni, interazioni immerse nella realtà esterne e che non è dovuto allo spostamento di qualcosa di pensato e poi rimosso in quanto non sopportabile, ma che si struttura proprio in quanto vissuto, ma mai pensato.
Da tempo sappiamo che i traumi non vengono sempre registrati come eventi, ma spesso come forma di “conoscenza” di caratteristiche negative del Sé e proprio il sistema di memoria traumatica consiste in questi casi in affetti negativi e di attribuzioni negative del Sé legate ad attribuzioni dell’altro. Il paziente si vive, sia internamente che esternamente, come debole, cattivo, incapace e stupido e in casi estremi si può sentire mostruoso, repellente, un verme, unendo tali immagini a quelle di un altro controllante, critico, mortificante.
Agendo sulla realtà esterna possiamo avvicinare proprio queste aree della vita psichica, che in quanto risultato dell’elevata ansia che ha accompagnato il trauma, si evidenziano mentalmente in rapporto ad esperienze concrete, modificando le quali si aiuta il paziente a divenire in qualche modo più consapevole degli schemi inconsci espressi nel suo comportamento non verbale.
Sappiamo che la tensione del vivere è costituita dal compito di mettere continuamente in contatto la realtà interna con la realtà esterna e dalla necessità di dovere decidere ogni volta tra quello che appartiene all’esperienza condivisa con caratteri di alterità e ciò che è prevalentemente frutto delle nostre proiezioni. L’imprigionamento del soggetto all‟interno del suo solitario psichismo, o nelle gabbie di una realtà esterna che richiede sottomissione, tipico delle situazioni di psicosi, può essere allora superato proprio attraverso un lavoro psichico che produce una realtà nuova, frutto della creatività del soggetto e del terapeuta e che, utilizzando del materiale che riconosce collocato fuori di sé, può creare qualcosa di personale che prima non esisteva.

Conclusioni

A proposito del lavoro dello psicoanalista con il paziente psicotico, Bollas (2001) scrive che “ogni paziente suggerisce all’analista un ambiente nel quale vivere un periodo psicoanalitico insieme e ogni analista deve soffrire della malattia di questo luogo” (…). “Con il passare del tempo ( ed è interessante il fatto che in questa situazione il tempo assume una funzione differente e curativa) l‟analista è in grado di trasformare una relazione oggettuale informativa in pensiero (…), pensiero che, in quel momento, è curativo anche per l‟analista e che, solo gradualmente, attraverso interpretazioni pregnanti e il trascorrere del tempo, permetterà anche al paziente di stare meglio”.
La reverie dell’analista consiste in questi casi, nella disponibilità della sua mente ad accogliere elementi caotici, emozioni che non sono ancora affetti, fino a lasciarsene contagiare (Gaburri e Ambrosiano, 2003). Un coinvolgimento che implica l‟attivazione in lui di livelli anche molto antichi, per lo più inconsci, e che lo rendono particolarmente sensibile a emozioni, ruoli, aspetti scissi che transitano nel campo dell‟incontro in una posizione di relativa indistinzione, rispetto al ruolo svolto fino ad allora rispetto alle ripetitività delle manifestazioni più abituali del paziente. Lavorare con i pazienti gravi in tante esperienze terapeutico-riabilitative significa spesso lavorare su aree ignote della mente del paziente ma anche dell’operatore. Sappiamo quanto tollerare l‟ignoto vuol dire accettarlo, riuscendo via via a contenere le emozioni estranee a noi, non come un problema sempre risolvibile ma come un dato inconscio che può essere mobilizzabile ed elaborabile solo attraverso una continua attività auto-riflessiva. Un‟attività auto-riflessiva che eviti di dare per scontate alcune soluzioni istituzionali solo apparentemente terapeutiche e che riconosca le nostre soluzioni difensive, comunque connaturate al lavoro che abbiamo scelto, solo apparentemente comode.
Scriveva Winnicott ( 1963): “Sapere dove si è in ogni momento e capire quanto è utile al paziente arrivare sempre più vicino al suo specifico punto di follia richiede considerevole esperienza e coraggio. Tuttavia se l’analista non è in grado di vedere la cosa in questo modo e – per paura, per ignoranza, per il fastidio di avere per le mani un paziente così malato – tende a sprecare le cose che succedono nel trattamento, non può curare il paziente: egli si ritrova continuamente a correggere il transfert delirante o, in un modo o nell’altro, a indurre il paziente alla sanità, invece di permettere alla follia di diventare una esperienza accettabile dalla quale il paziente può recedere spontaneamente”.
Fu Freud stesso, come ci ricorda Giovanna Goretti, a domandarsi se l‟analisi non ci confronti talvolta con pensieri che non sono stati semplicemente sottratti alla coscienza, perché sentiti incompatibili con le rappresentazioni prevalenti, ma che “non sono mai stati formulati” e per i quali “si dava solo una possibilità virtuale di esistenza” (Freud, 1892-95, pag. 435). Seguendo l‟ipotesi che la terapia in questi casi consiste “nel completamento di un atto psichico precedentemente incompiuto”, potremmo allora immaginare che Freud ci segnalasse così il compito di portare a termine atti psichici incompleti, di “pensare e sentire quello che il paziente non ha pensato e che ha solo confusamente percepito, ma che in una qualche forma è presente in lui” (Goretti, 2003).

RIASSUNTO

La cura dei pazienti gravi nei servizi pubblici territoriali si svolge spesso in contesti in cui la realtà esterna rappresenta l’unico spazio di comunicazione terapeutica. In molte esperienze cliniche caratterizzate dal “fare” insieme ai pazienti, ci si avvicina a quelle aree non disponibili della mente, non affrontabili tramite un lavoro sui processi di simbolizzazione, attivando dinamiche che si collegano ad un inconscio non rimosso, non simbolizzabile a parole, che viene ricordato attraverso fatti, comportamenti, azioni e interazioni immerse nella realtà esterna.

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