Attaccamento e traumi precoci: quale intervento nell’Intimate Partner Violence?

Il mio intervento è alla fine di questa giornata e ho l’onore e l’onere di concludere questo interessante convegno. Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questo evento che ci hanno dato la possibilità di sentire voci molto diverse. L’interdisciplinarietà che ha caratterizzato questa giornata ha arricchito il nostro pensiero.

Ciò che vorrei dire parte da una premessa: non voglio mettere in discussione quanto abbiamo sentito e cioè che la violenza sulla donna, ovvero la violenza maschile contro la donna, è basata su una relazione di potere tra i generi che pervade la società. La mia posizione, più semplicemente, vuole focalizzarsi su un altro aspetto. Perchè dico questo come premessa? Perchè innanzitutto penso che il fenomeno sia non solo interdisciplinare, come abbiamo sentito dalle diverse voci, ma anche stratificato. Il nostro lavoro come clinici richiede una ulteriore articolazione del discorso. Questa premessa è anche necessaria per evitare fraintendimenti che potrebbero far pensare che alcune delle cose che sto per dire possano stigmatizzare le donne, “diagnosticarle” come se il problema fosse loro o come se fossero responsabili di quanto accade loro. Nessuna donna ricerca la violenza nella relazione, non credo al masochismo femminile, ma come clinici dobbiamo capire perché in alcuni casi – molti – non riusciamo ad aiutare le donne ad allontanarsi dai loro partner violenti. Dobbiamo accogliere la loro sofferenza, dargli un senso, aiutarle ad elaborare i traumi che hanno vissuto e spesso ci troviamo, nei centri antiviolenza o negli studi privati, a combattere contro una spinta inconscia che rende difficile per queste donne prendere o mantenere le distanze anche quando hanno subito gravissimi abusi.

La prospettiva da cui mi pongo si avvicina in qualche modo a quello che dicevano oggi Tiziana Bastianini, Giuliana Ziliotto e Anna Bincoletto, cioè un tentativo di capire quali elementi di natura profonda portino , in questi casi specifici, a non riconoscere o addirittura a non potersi allontanare da una relazione violenta.

Penso che dobbiamo guardare a questo considerando quello che la storia ci insegna, la nostra storia, il modo in cui siamo cresciuti. Riprenderò questo tema alla fine, perchè concordo con quanto dice Selma Fraiberg (1999) quando afferma che “la storia non è destino”. Ma ovviamente la storia è importante. Penso che voi concorderete che il senso che abbiamo di noi stessi viene plasmato sia da ciò che siamo in grado di rievocare in maniera esplicita sia dai ricordi impliciti che hanno creato i nostri modelli mentali e l’esperienza soggettiva interna di immagini, sensazioni, emozioni e risposte comportamentali (Siegel, 1999).

Queste esperienze relazionali precoci, compreso l’attaccamento, influenzano non solo ciò che il bambino ricorda, ma anche le modalità attraverso le quali si sviluppano i suoi processi rappresentazionali. I meccanismi che consentono alla mente di conferire significato alle diverse esperienze sono strettamente correlati alle interazioni primarie e questi legami sono dovuti al fatto che l’attribuzione di significati e le relazioni interpersonali coinvolgono circuiti neurali che sono anche implicati nella generazione dei processi emozionali (Siegel, 1999).

Cosa ci dice la letteratura scientifica sull’effetto di queste esperienze precoci, soprattutto quando sono state negative? Ci dice, per esempio, che le vittime di maltrattamenti infantili hanno un rischio di rivittimizzazione nelle relazioni interpersonali adulte da due a tre volte superiore rispetto a chi ha avuto esperienze positive; quando l’abuso infantile è stato di tipo sessuale le donne sono 6 volte più a rischio di subire abusi sessuali dal partner e 3 volte più esposte a subire violenza fisica da adulte. C’è una mole molto ampia di ricerche che ci indica come ci sia una associazione molto forte tra esperienze negative nell’infanzia e rivittimizzazione fisica ed emotiva in età adulta (Alexander, 2009; Iverson et al., 2014; White & Widom, 2003; Whitfield et al., 2003). Dobbiamo considerare inoltre che le esperienze traumatiche possono essere state violenza fisica e sessuale, ma anche essere stati testimoni della violenza tra i propri genitori – la cosiddetta violenza assistita –, le violazioni dei confini intergenerazionali come l’inversione di ruolo o i comportamenti seduttivi, oppure essere stati gravemente trascurati sul piano affettivo.

Come spiegare questa ripetizione del maltrattamento, questa rivittimizzazione, questa difficoltà di proteggersi e investire su relazioni positive?

Il maltrattamento infantile ha un profondo impatto sul funzionamento interpersonale, in modi vari e complessi: rende difficile avere fiducia nell’altro e percepire in maniera sicura e chiara i confini del sé, fa sperimentare un’ambivalenza intollerabile nelle relazioni, difficoltà nella comunicazione e nel controllare la rabbia, mancanza di intimità, fraintendimento e confusione tra violenza e amore.

Ognuno di noi impara a comprendere se stesso e gli altri nel contesto delle relazioni di attaccamento che si basano inizialmente sulla responsività del caregiver. Nei contesti abusanti, i bambini e le bambine sviluppano una rappresentazione di se stessi come incompetenti e privi di valore e degli altri come rifiutanti e incapaci di rispondere ai propri bisogni. Queste aspettative possono generalizzarsi alle relazioni con gli altri. Dobbiamo inoltre essere consapevoli del fatto che le esperienze relazionali primarie vengono interiorizzate sia come rappresentazioni di sé, ma anche come rappresentazioni dell’altro: la cosiddetta identificazione con l’aggressore ci indica che il processo di costruzione del proprio mondo rappresentazionale e affettivo abbraccia non solo l’esperienza del sé, ma anche l’esperienza dell’altro nei nostri confronti, l’altro aspetto della relazione.

Sul piano affettivo, inoltre, le donne che hanno subito maltrattamenti infantili mostrano delle specifiche difficoltà nel riconoscere e nominare gli stati emozionali propri e altrui, ma anche e soprattutto nel riconoscere e rispondere agli stimoli minacciosi. Questo lo osserviamo anche nei bambini traumatizzati, dove gli stimoli vengono interpretati in modo errato: o vengono sovrainterpretati e ogni cosa viene percepita come una possibile minaccia oppure non c’è nessuna risposta, come se non fossero in grado di distinguere ciò che è potenzialmente minaccioso da ciò che non lo è.

Quando ragioniamo sul legame di coppia in cui è presente violenza, dobbiamo pensare che le donne che hanno subito maltrattamenti infantili sono spesso apertamente accudenti e non assertive nelle relazioni interpersonali, tendono ad aspettarsi che gli altri le trattino in maniera fredda e controllante e sviluppano una sorta di “devozione” verso il partner violento. Questo aspetto è da ricondurre alla qualità distorta delle relazioni precoci in cui avevano spesso sviluppato una inversione di ruolo nei confronti del caregiver abusante o trascurante.

Il tradimento della fiducia sperimentato nelle relazioni primarie crea percezioni distorte relativamente alla fiducia e alla sicurezza nelle altre relazioni. E’ questa una delle cose più drammatiche dell’esperienza del maltrattamento e questo avviene perché il bisogno di attaccamento è un bisogno umano profondo e biologicamente determinato che dovrebbe garantire la sopravvivenza fisica e psichica. E’ quanto osserviamo anche nei bambini con storie di maltrattamento che vengono adottati o dati in affidamento e che per molto tempo non riescono a sviluppare relazioni positive con i genitori adottivi: i loro legami di attaccamento sono mantenuti attivi nei confronti dei caregiver che li hanno cresciuti, anche se questi legami sono fonte di sofferenza.

Le violazioni interpersonali perpetrate dalle persone da cui si dipende vengono processate e ricordate in modo differente rispetto alle violazioni perpetrate da figure sconosciute: in sostanza, la persona tende ad adattarsi al fine di mantenere viva e presente la relazione. La difficoltà di percepire l’abuso come un tradimento della fiducia di base diventa un meccanismo adattivo per permettere a quella relazione di svolgere la sua funzione.

E’ seguendo questa prospettiva che ci siamo interrogati sulla storia infantile di queste donne e le abbiamo intervistate, con l’Adult Attachment Interview, non sulle loro relazioni attuali con partner violenti, ma sulla loro storia precoce di attaccamento, per aiutarle a capire come la difficoltà di elaborare queste storie era legata alle loro sofferenze attuali. Il campione era composto da 66 donne tra i 19 e i 55 anni, la maggioranza delle quali era diplomata e nel 60% dei casi aveva un’occupazione stabile. Nella storia precoce di queste donne era possibile rintracciare eventi traumatici molteplici: abusi sessuali, maltrattamenti, abusi psicologici, violenza domestica. Dall’analisi dell’intervista era evidente che in percentuali che andavano dal 54.5% al 68.6% (quest’ultima percentuale nelle donne che erano nei centri antiviolenza) questi eventi non erano stati elaborati e indicavano uno stato della mente nei confronti dell’attaccamento di tipo Irrisolto/disorganizzato (U/d). A questo si associava molto spesso una difficoltà di riconoscere la natura e la gravità di ciò che avevano subito e l’effetto che aveva avuto su di loro. Erano paradossalmente ancorate a questo tipo di vissuto traumatico e quindi per certi versi erano indifferenti allo stesso trauma attuale, quello della relazione violenta all’interno della quale vivevano. Mi è capitato spesso di osservare una simile “cecità” psicologica nei genitori coinvolti in situazioni di maltrattamento e abuso: una incapacità di distinguere ciò che è violento e traumatico da ciò che è protettivo per il bambino e di comprenderne gli effetti sul suo stato affettivo.

Quando parliamo di esperienze traumatiche nell’infanzia è utile fare riferimento a quello che viene chiamato “trauma complesso”, definito come “un’esperienza di eventi traumatici molteplici, cronici e prolungati, di natura interpersonale e ad esordio precoce, che si verificano spesso nel sistema di accudimento primario” (Cook et al., 2005). Ovviamente il trauma complesso è qualcosa di molto difficile da circoscrivere perché non è un evento unico, ma una esperienza pervasiva di traumaticità che viene respirata fin dalle prime fasi dello sviluppo e che interferisce con lo sviluppo delle capacità di autoregolazione, con l’adattamento all’ambiente interpersonale e con la costruzione dell’immagine del sé. Spesso in questi casi si osserva una incapacità di integrare o costruire rappresentazioni stabili e coerenti della propria esperienza relazionale che si esprime attraverso momenti più o meno estesi di assorbimento che denotano un collasso delle strategie e un vuoto di consapevolezza. Queste espressioni dissociative di sviluppi traumatici sono volte a mantenere attivamente separate esperienze contraddittorie che si sono manifestate sin dall’infanzia negli scambi interattivi con le figure di attaccamento (per es. qualcuno che in certi momenti mi fa del male o viola la mia integrità psicofisica o sessuale è anche lo stesso che in altri momenti si occupa di me). Non a caso molte delle persone che hanno subito esperienze di questo tipo sono incapaci di considerare molti eventi relazionali come potenzialmente traumatici e come esperienze in grado di influenzare il loro sviluppo, la loro personalità e la capacità di esercitare una funzione genitoriale adeguata (Liotti, Farina, 2011). Su questa stessa linea sono i dati dell’indagine ISTAT del 2007 sulle violenze subite dalle donne: oltre all’elevata frequenza con cui si presentano queste violenze, quello che colpisce di più è che circa il 30% delle donne rispondevano che per loro questi eventi erano normali, non qualcosa da denunciare o da cui difendersi. Questo è il punto critico. Penso però che questo aspetto, questa sorta di cecità rispetto alla propria esperienza è quello che organizza e costruisce un adattamento agli eventi traumatici: sono le voci delle donne che dicono “sono io che sbaglio, lui mi ama”. Esperienze di trauma complesso possono associarsi ad un deficit o ad una inibizione attiva della funzione riflessiva, con una difficoltà nel riflettere e dare significato all’esperienza vissuta con i caregiver. Espressioni di questa difficoltà di mentalizzazione vanno dalla concretezza e dalla esclusiva attenzione agli aspetti materiali dell’esperienza fino ad una pervasiva incapacità di percepirsi come esseri intenzionali dotati di stati affettivi e bisogni. La contrazione della mentalizzazione e l’annullamento della soggettività sono manovre difensive rispetto al dolore e alla non comprensibilità di alcune esperienze.

C’è una poesia molto bella di Emily Dickinson (1862) che dice “Non c’è bisogno di essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi, non c’è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi molto più vasti di uno spazio materiale. Assai più sicuro un incontro a mezzanotte con un fantasma esterno che incontrare disarmati il proprio io in un posto desolato”.

Il titolo di questa relazione doveva essere “traumi precoci: quali intervento?”. Io penso che non sia facile dare una risposta a questa domanda, ma penso che se non consideriamo la difficoltà di riconoscere gli eventi violenti, la cecità psicologica nei confronti della propria storia e a volte della storia dei propri figli, l’impossibilità di riconoscerne gli effetti, saremo costretti ad assistere impotenti alla ripetizione di qualcosa che sfugge alla comprensibilità: “io non posso lasciarlo, perché lui a modo suomi ama”. Questa frase indica un punto cieco, una difficoltà di riconoscere e distinguere l’amore dal controllo e dalla sopraffazione, un ostacolo invisibile che rende difficile sottrarsi alla violenza dell’altro. Penso che la presa in carico delle situazioni di violenza non possa prescindere dalla considerazione e dalla possibilità di elaborazione della storia relazionale e affettiva delle persone con un passato traumatico a lungo disconosciuto. Perché come ci insegna la Fraiberg, la storia – e anche la violenza – non dev’essere un destino.

Alexander PC (2009), Childhood trauma, attachment, and abuse by multiple partners. Psychological Trauma: Theory, Research, Practice, and Policy, 1(1), 78-88.

Cook A, Spinazzola J, Ford J, Lanktree C, Blaustein M, Cloitre M, van der Kolk B (2005), Complex trauma in children and adolescents. Psychiatric Annals, 35, 390-398.

Fraiberg S (1999), Il sostegno allo sviluppo. Raffaello Cortina, Milano.

ISTAT (2007), Violenza contro le donne. http://wwww.istat.it/it/archivio

Iverson KM, McLaughlin KA, Adair KC, Monson CM (2014), Anger-related dysregulation as a factor linking childhood physical abuse and interparental violence to intimate partner violence experiences. Violence and victims,29(4), 564-578.

Liotti G, Farina B (2011), Sviluppi Traumatici: eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Milano: Raffaello Cortina.

Siegel D (1999), La mente relazionale. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2001.

White HR, Widom CS (2003), Intimate partner violence among abused and neglected children in young adulthood: The mediating effects of early aggression, antisocial personality, hostility and alcohol problems. Aggressive Behavior, 29(4), 332-345.

Whitfield CL, Anda RF, Dube SR, & Felitti VJ (2003), Violent childhood experiences and the risk of intimate partner violence in adults assessment in a large health maintenance organization. Journal of Interpersonal Violence, 18(2), 166-185.