Discorso sulla violenza e/o violenza del discorso?

Difficile inserirmi nel panorama che  è stato fatto da Carol Tarantelli e per questo motivo vi chiedo di fare lo sforzo di passare dalla strada alla casa, e dalla  dismisura dei fatti che sono stati citati  alla misura  domestica che ha molto spesso la violenza sulla quale noi donne  ancora non siamo veramente riuscite  a fare un lavoro diverso da quello che l’informazione e il discorso pubblico propongono. 

Fermo restando  che se non fosse a fronte di un pensiero e una parola delle donne che mi sto muovendo e che forse  non ci sarebbe neanche l’occasione per un   convegno come questo, mi sembra tuttavia un punto irrinunciabile perché le donne e la loro volontà abbiano diritto di cittadinanza  che ogni donna abbia in primis una indipendenza economica anche se minima, che non la consegni nelle mani di un uomo-padrone.  La questione mi interessa tanto più in quanto senza una minima indipendenza economica le donne non possono utilizzare neanche il mio lavoro di psicoanalista. 

Nel mio studio entra  il tema della sessualità non solo e non principalmente attraverso  donne  abusate da un aggressore riconoscibile. Piuttosto le donne che si rivolgono a me  portano un vissuto da abusate anche se non riconoscono nei loro compagni gli abusatori.

Questa realtà mi ha fatto comprendere meglio che anche se la sessualità umana è all’origine della vita psichica di uomini e donne, ciò che ancora fatica a prendere forma anche in psicoanalisi è che  le sessualità sono due, in altri termini detto che  il riconoscimento della differenza sessuale è alla base di una vera rivoluzione epistemica ed esistenziale. Ci sono dunque una sessualità maschile e una femminile che non vuol dire che  siano sempre distribuite su soggetti che alla nascita sono riconosciuti come maschi o femmine  come ormai indica il fenomeno del transessualismo.  

Si continua a ragionare con  categorie quali attivo|passivo,  dove il passivo è di segno femminile e l’attivo di segno maschile. Tuttavia così concepite queste categorie ormai spiegano poco di ciò che si sperimenta sia con i pazienti che nella realtà in cui viviamo.  Non è dell’attività e della passività nel  senso in cui la cronaca presenta il cosiddetto femminicidio che sto parlando dove la rappresentazione dei due sessi è congelata e imprigionata negli stereotipi. 

Il punto su cui desidero richiamare l’attenzione è che le due sessualità lavorano su punti di forza che in un certo senso non sono compatibili. In altri termini  la sessualità maschile lavora sul terriccio fondamentale rappresentato dal fallo che tuttavia per l’uomo coincide con il proprio organo sessuale, il pene cioè, mentre la sessualità femminile è  fortemente radicata sulla possibilità che tra uomo e donna  vi sia un piano discorsivo di scambio che alimenta fortemente l’eccitazione e l’immaginario sessuale femminile così come per l’uomo non si da immaginario sessuale separato dall’erezione, ovvero da un piacere d’organo. 

Tuttavia esiste oggi un nuovo tipo di rappresentazione della  sessualità femminile ,proposta principalmente da internet, che vede  soprattutto giovani donne che si propongono almeno virtualmente come soggetti sessuali attivi quando non aggressivi ,salvo poi ad arretrare di fronte alle critiche o al bullismo di cui finiscono per essere il bersaglio. Queste “neosessualità” non fanno certo gioco alla differenza sessuale poiché anzi spesso imitano un uso fallico della sessualità.

A partire dalla funzione che il virtuale ha oggi nel rapporto tra i sessi vorrei richiamare l’attenzione su un aspetto di questa rappresentazione virtuale che riguarda il modo in cui il nostro immaginario, in termini psicoanalitici il preconscio, è continuamento rifornito di immagini che propongono la violenza sulle donne in modo morboso, con una dovizia di particolari non necessari all’informazione e invece indispensabili per nutrire un immaginario al pari della pornografia. L’ambivalenza che caratterizza la psiche umana viene  tutta orientata sulla sottomissione che il corpo della donna subisce sotto i colpi inferti da un uomo. Le donne vengono così anche  private del diritto ad una loro espressione della violenza che sembra doversi allineare su una risposta simmetrica a quella maschile del resto il modo di “informare” sui femminicidi colloca la donna nella posizione di ineluttabile vittima. La conta dei femminicidi dall’inizio dell’anno serve purtroppo non solo a denunciare ma anche, surrettiziamente, a dare la violenza degli uomini sulle donne fino all’omicidio come un dato intrasformabile.

Le donne vittime di violenza in questo modo restano imprigionate in un immaginario e una cultura di stampo  patriarcale in cui  l’uomo continua a trovare un fattore identitario che resiste anche nei più evoluti tra gli uomini. 

Il movimento femminista ha fatto e fa un lavoro continuo di smascheramento dei molti volti dietro cui si nasconde una mentalità patriarcale tanto che si può affermare con orgoglio che già solo  20 anni fa non c’erano le condizioni sociali e culturali in cui oggi vive e  cresce una donna. Su questo punto mi sembra che Anna Finocchiaro sia stata molto chiara, basti pensare  all’aspetto legislativo attuale per renderci conto che 20 anni fa quando una donna si ribellava e denunciava un abuso venivano sospettate  la sua serietà, la sua credibilità e perfino la sua salute mentale.  Ora, tutto questo, almeno in occidente, riguarda  sacche sociali in cui le donne non hanno possibilità né di esprimere nè purtroppo di avere una propria opinione sulla realtà nella quale vivono. Carol ha illustrato bene come manchi la parola di queste donne su se stesse. La messa in parola che è la forza della soggettività, rende indispensabile il discorso che le donne si  scambiano, discorso che, come ho già detto, è lo strumento principale perché la sessualità femminile, il modo cioè in cui una donna pensa e vive la propria differenza dall’uomo, trovi rappresentazione e parola.  

E’ su tutti i mezzi di informazione la denuncia di parte femminile della riduzione dell’approccio di un uomo ad una donna ad un “voglio scoparti” che tagliando fuori in modo radicale la parola dallo scambio tra uomo e donna non lascia a quest’ultima   che ribellarsi o soggiacere, fuggire o starci. 

Tuttavia è bene  precisare che il caso Weinstein, che ha scatenato il movimento Me-too, non può essere paragonato allo sfruttamento e alla violenza della “tratta” in cui le donne partono da un grado zero di emancipazione e possono semmai solo pensare alla propria sopravvivenza fisica. Le condizioni storico sociali in cui noi operiamo  sono quelle per cui ci siamo battute e continuiamo a farlo e pur riconoscendo che dopo 30 anni  la negoziazione tra sessualità maschile e sessualità femminile è cambiata, ciò che ancora funziona a tutti i livelli sociali è l’esercizio maschile del potere che è radicato sulla certezza che ha l’uomo che il potere- per piccolo che sia- che egli esercita non rappresenta se stesso ma l’’Istituzione, la Società, la Legge. 

Manca invece  nel discorso femminile una rappresentazione del potere che non finisca in una involontaria  imitazione dei modi in cui viene esercitato dagli uomini per cui il più forte è quello che ha maggior potere di condizionare l’altro.  E’ tuttavia irrealistico pensare di opporre all’esercizio tirannico del potere un rifiuto educato. Dobbiamo fare in modo che non ci siano le condizioni perché venga esercitato un condizionamento sulla donna che  non sente di essere una merce sessuale. Per questo però ci vuole maggiore emancipazione economica e culturale delle donne oltre ad un doloroso e paziente lavoro di smascheramento dei condizionamenti che cominciano nell’infanzia attraverso le famiglie di origine e la sottomissione alla logica patriarcale delle madri. Anche quelle amate e rispettate dai padri. 

Prendiamo ad esempio il  movimento  “mani pulite”che a livello culturale e legislativo ha denunciate anche i potenti,  ma questo non è bastato ad estirpare l’esercizio di un potere di sopraffazione basato su una concezione dell’uomo che non ha toccato i ruoli sessuali e di conseguenza non ha intaccato la complicità di molti uomini  con i loro tiranni . La sottomissione alle regole del più forte mantiene in essere anche la sottomissione della donna all’uomo ancor più quando la donna si trova ad amministrare un potere che è sempre stato degli uomini.

Insisto sul fatto che fino a che la differenza sessuale non attraverserà il modo di intendere e praticare la forza non come strumento di dominio e sopraffazione, fino a che cioè la “forza” di una donna verrà relegata tutta all’esercizio della cura, sia essa cura del figlio come dello Stato, non  potranno che esservi infinite riedizioni di un rapporto tra i sessi e tra questi e il potere che non  supera l’incantamento di un padrepatriarca che mette ordine nel mondo. Con buona pace delle donne a cui non resta simmetricamente che occupare il posto delle matriarche. O delle figlie aimè.