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Il lavoro terapeutico in comunità. La messa a fuoco di un corpo estraneo. Effetti sul paziente, sugli ospiti e sui curanti

 Abstract

Le comunità terapeutiche vengono utilizzate, al momento attuale e ormai da vari decenni, per una vasta gamma di disturbi, che vanno dall’abuso di sostanze, ai disturbi gravi di personalità, alle psicosi in sub acuzie o cronicizzate. Spesso i disturbi sono intrecciati tra loro, in modo da costituire quadri sintomatici complessi, di difficile diagnosi.

È possibile rintracciare due prospettive che convergono nel dispositivo della comunità terapeutica e che ci permettono di definire due fattori cruciali del trattamento. La prima, che potremmo definire individuale, valorizza la funzione protettiva e facilitante del contesto, che viene visto, tendenzialmente, come un elemento terzo, tra paziente e curante, e quindi tale da permettere un rapporto a due, che resterebbe altrimenti reso difficile dalla intensità della dimensione transferale. In un’altra prospettiva, si sottolineano invece i fattori collettivi e gruppali, insistendo sul valore terapeutico complessivo del contesto comunitario, inteso come dispositivo, non solo umano, ma culturale, capace di offrire un accoglimento affettivo, ma per così dire, strutturato e ordinato. In questa seconda prospettiva, si potrebbe dire, in modo molto semplificato, che “è il gruppo che cura”, mentre nella prospettiva individuale, si potrebbe dire che “il terapeuta cura, coll’aiuto del gruppo”.

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