Figure del dialogo. Figure del fraintendimento

‘Figure del dialogo’ si intitola il bel libro di Alfredo Lombardozzi dedicato ai possibili spazi di incontro e di confronto tra antropologia e psicoanalisi, terreno sul quale l’autore è impegnato da anni sia su un piano teorico che su un piano di possibile ‘applicazione’ e contaminazione pratica, possedendo tra l’altro una doppia competenza sia psicoanalitica che antropologica.

La storia dei rapporti tra antropologia e psicoanalisi è infatti costellata da grandi e reciproche curiosità e ‘fascinazioni’, e da altrettanto grandi incomprensioni e fraintendimenti: basti pensare alla suggestiva immagine di Marc Augè che le vede perennemente impegnate a ‘ scambiarsi i bigliettini da visita senza riuscire ad unire i loro destini’ e alle parole dell’antropologa Giordana Charuty che sottolinea i continui ‘appuntamenti mancati’ tra le due discipline. Un dialogo dunque che si intuisce potenzialmente fecondo e ritenuto da alcuni autori addirittura indispensabile soprattutto nell’era della cosiddetta globalizzazione, mache, nondimeno, appare irto di difficoltà e continuamente esposto al rischiodel fraintendimento.

Lombardozzi sceglie di sondare le risorse di un dialogo possibile tra le duediscipline a partire da alcune ‘figure’ ritenute centralinell’attuale dibattito psicoanalitico e antropologico (soggettività,identità-alterità, spazio-tempo, rito-mito, memoria-sogno, etc), che vannoquasi a costituire una sorta di ‘vocabolario’ a cui entrambe lediscipline possono apportare un loro contributo originale. Anzi, sembraimplicitamente suggerire l’autore, non è possibile costruirsi unadescrizione ‘attendibile’ di queste nozioni cruciali per lecosiddette scienze umane applicate se non si considerano gli apportiprovenienti da entrambe le discipline. Figure intese in senso barthesiano comefigure coeografiche, dunque estremamente dinamiche ed evolutive, che intendono‘descrivere un movimento’, un dia-logo, appunto, di avvicinamentoed allontanamento, in cui dunque, col necessario rigore epistemologico, vengonomesse in luce sia le aree di convergenza e di affinità che quelle di divergenzae di frizione tra le due discipline, che Lombardozzi non nega né sottace: alcontrario cerca di individuarne le ragioni profonde scegliendo però di lavoraread un loro possibile superamento.

Dunque una lunga storia travagliata e controversa quella dei rapporti traantropologia e psicoanalisi, segnata dalla controversia storica tra Jones eMalinowski sull’universalità dell’Edipo: negata da Malinowski perle società matrilineari sulla base della sua ‘osservazione’empirica dei rapporti interpersonali e delle leggi della parentela in quellesocietà, ribadita da Jones sulla base delle conoscenze cliniche acquisite dallapsicoanalisi che insegnano a non fidarsi delle componenti esplicite e manifestedelle relazioni umane ma ad interrogarsi costantemente sui loro risvolti“inconsci”, appunto.

Una modalità di ‘fraintendimento’ tra psicoanalisi eantropologia che resta in un certo senso ‘fissata’ da questa primacontroversia: con gli antropologi arenati a contestare agli psicoanalisti unapresunta ‘indimostrabilità’ delle loro affermazioni e glipsicoanalisti incapaci di leggere i dati antropologici altrimenti che come casiparticolari di presunte leggi universali derivate univocamente dalla clinica,considerata come luogo di emergenza privilegiato di una logicadell’inconscio, sul cui modello vengono ricostruiti i modi difunzionamento delle relazioni sociali.

La riflessione di Lombardozzi muove dalla necessità di ripensare il concettodi identità, concetto cruciale in questa fine millennio affacciata sumolteplici traversamenti culturali, i quali attraversano non solo le relazioniumane sia tra gruppi che tra singoli ma anche le biografie individuali e lecatene generazionali: nelle cosiddette società multiculturali non è piùpossibile cioè parlare -studiare o declinare- delle identità individuali al difuori di una riflessione profonda sul legame strutturale tra identità ecultura, o meglio, al di fuori di una riflessione sull’influenza che letrasformazioni culturali hanno sul senso di identità individuale, dal momentoche ogni singolo percorso individuale è inevitabilmente‘contaminato’ da una dinamica di trasformazione culturaleaccelerata che coinvolge i rapporti interpersonali così come gli universisimbolici di riferimento e le loro inevitabili contropartite ideologiche einconsce.

Diventa cioè sempre più immediata ed inevitabile la sovrapposizione tra idue ambiti disciplinari: in questo senso anche i fraintendimenti tra le duediscipline possono, secondo Lombardozzi, restituire un senso nuovo, inatteso,allargare l’universo dei possibili e molteplici ‘sensi’ diavvenimenti ed esperienze, individuando la possibilità di accedere a nuoveconoscenze nella capacità di “sostare ai margini del caos”, con leparole dell’autore, senza lasciarsi travolgere da una babele caotica néirrigidire da un repertorio immutabile di interpretazioni.

Inevitabile risulta poi il riferimento alle attuali migrazioni daicosiddetti paesi in via di sviluppo verso l’Europa, formidabileattivatore di mutamenti antropologici e psicologici, capace non solo dimodificare in profondità la auto-percezione collettiva ed individuale ma anchedi influenzare gli stessi processi di ‘costruzione’ dellasoggettività. Il tema ‘classico’, per così dire, posto dai rapportitra antropologia e psicoanalisi, rappresentato dalla necessità di declinare ledifferenze culturali tenendo ferma la dimensione universalistica della psiche,viene in quest’ottica in un certo senso ribaltata dalla necessità diriflettere su come differenti ‘ancoraggi’ culturali possonocontribuire e per così dire confluire nell’evoluzione psichicaindividuale.

E’ così che il terreno più attuale e concreto di confronto tra le duediscipline si concentra sull’analisi dei processi di costruzionedell’identità, che è possibile effettuare sia nella clinica individualeche nei gruppi terapeutici ad indirizzo analitico che nei contestisocioculturali allargati. Si tratta in tutti i casi di processi simboliciall’opera che per realizzarsi necessitano di strumenti culturali epsichici, cognitivi ed affettivi, di una langue ( a livello socioculturale) edi una parole ( a livello individuale), volendo parafrasare il lessicosaussuriano. E’ solo l’iscrizione in una langue collettiva,ovverosia in un contesto di significazione e di simbolizzazionetrans-soggettivo, che permette di articolare significativamente la propriaparole, la propria esperienza soggettiva cioè, così come sono poi le paroleindividuali, ovverosia la capacità psichica di riempire di significatopersonale e di conferire rilevanza affettiva ai vocaboli, a rendere‘viva’, e dunque efficace anche linguisticamente, una langue.E’ proprio questo quel “punto essenziale” in cui, secondoFoucault, etnologia e psicoanalisi si incrociano perpendicolarmente: laddove lacatena di significanti sociali incontra la capacità di significazioneindividuale, trovando esattamente in quel ‘punto’ la possibilità diacquisire significato.

L’intreccio tra ricerche antropologiche e clinica psicoanalitica svelainoltre il ruolo centrale dell’alterità, dell’esperienza e delconcetto di ‘alterità’, nella costruzione dell’identitàcollettiva ed individuale. Da questo punto di vista le due discipline possonoessere viste come “tematizzazioni diverse e complementari del temadell’altro” (De Micco, 2004). Lombardozzi sottolinea ampiamente laconsapevolezza presente nella recente letteratura antropologica relativaall’impossibilità di separare il processo di formazione del‘noi’ da quello del ‘loro’, ovverosia che lapossibilità di identificarsi in un gruppo culturalmente ‘coerente’deriva direttamente dal fatto di escludere alcune scelte culturali possibili,che sono poi quelle degli ‘altri’, dei ‘loro’,spingendo quindi a vedere nell’altro culturale piuttosto una possibilitàalternativa che una opposizione radicale. Viene riscoperta in questo lafondamentale lezione demartiniana e il suo invito a “tematizzare ilproprio attraverso l’estraneo” come il fine principale del viaggioetnologico. Ancora più radicale in questo senso l’ottica psicoanaliticaper la quale ‘l’altro’ abita addirittura il cuoredell’essere umano: senza un altro che si prenda cura del sé immaturo delbambino è impensabile la possibilità di uno sviluppo e della stessasopravvivenza psicofisica, così come poi, in seguito, senza la capacità diriconoscere e tollerare ‘l’alterità’ dell’altro, ilfatto che appunto si tratta di una persona diversa da sé, risulta altrettantoimpossibile poter costruire una propria identità ed una propriasoggettività.

E’ dunque una visione dell’identità come precaria costruzionecostitutivamente esposta al rischio del travolgimento quella che si ricavadalle analisi offerte dalle due discipline, intimamente contaminata dalrapporto con un’alterità contemporaneamente inconoscibile fino in fondoeppure assolutamente indispensabile. Una concezione dell’identità che siconfronta dunque con gli aspetti “lacunosi” dell’esistenzapiuttosto che con aspetti di ‘pienezza e di compiutezza’, aspettiche invece una visione dell’identità come sentimento di coerenza e dicontinuità di sé tenderebbe ad accreditare. Da ciò l’auspicio diLombardozzi che progressivamente l’antropologo possa occupare sempre più,come lo psicoanalista, quegli “spazi nel processo epistemologico”che si occupano esattamente degli aspetti lacunosi dell’esistenza e dellaconoscenza (p.98-99).

Una particolare attenzione merita poi il capitolo sul sogno che sottolineala centralità dell’esperienza del sogno nelle società tradizionali,acutamente Lombardozzi evidenzia le differenze con la concettualizzazioneanalitica del sogno: innanzi tutto l’esperienza onirica rappresenta unadimensione estremamente socializzata nelle società tradizionali piuttosto che‘la’ dimensione intrapsichica per eccellenza, l’esperienzapiù solipsistica immaginabile che scaturisce da un vero e proprio ritiro degliinvestimenti dal mondo condiviso, come invece la descrive Freud. Il sogno nellesocietà tradizionali è al contrario ‘il’ mezzo per eccellenza checonsente di entrare in contatto, per così dire, con le stesse fondazionisimboliche del patto sociale. Sia nelle società tradizionali che per leconcezioni analitiche l’attività onirica è una specifica forma dipensiero e di rappresentazione dell’esperienza individuale, Lombardozzievidenzia bene la vicinanza di alcune concezioni tradizionali con alcuni deglisviluppi più interessanti del pensiero analitico: ad esempio la sostanzialecontinuità tra attività psichica relativa al sogno e alla veglia presente nelleconcezioni tradizionali e il concetto bioniano di funzione onirica della mentee il sogno come forma di rappresentazione dello stato attuale del sé diispirazione kohutiana. Ma quella che appare come la suggestione piùinteressante, e da sviluppare, è che mentre nelle società tradizionalil’attenzione è concentrata su ciò che “ si vede” in sogno,ovverosia su un registro iconico che è tout court ‘il significato’del sogno, per l’analista il focus è sul ‘racconto’ delsogno, sappiamo bene come l’analizzato possa avere costantemente lasensazione che il suo racconto del sogno non riesca a rendere pienamente ciòche ha visto nel sogno e che anzi in questo spazio tra visione del sogno eracconto-ascolto si situa precisamente il ‘lavoro’ analitico,spazio che, non a caso, appare per così dire collassato nella concezionetradizionale del sogno.

Direttamente collegato al tema del sogno che, nelle società tradizionali,consente di affondare direttamente nelle radici mitiche di fondazione di unpopolo è un altro tema centrale del testo dedicato ai rapporti tra narrazionimitiche, apparati rituali ed esperienze nei gruppi analitici.

Lombardozzi, sulla scorta anche della lezione di Corrao, sottolinea illegame strutturale esistente tra narrazioni mitiche ed apparati rituali,evidenziando in particolare la fondamentale dialettica tra ripetizione etrasformazione messa in atto in ogni sequenza rituale, ivi comprese quelle chesi realizzano nei gruppi ad indirizzo analitico. E’ proprio questadialettica tra ripetizione e trasformazione, di diversa intensità a seconda deidiversi contesti rituali o ritualizzati, che consente agli apparati rituali difunzionare da un lato come strumenti di riaffermazione e rifondazionedell’identità di un gruppo sociale, e del posto del singolo al suointerno, e dall’altro di promuovere elementi di cambiamento e ditrasformazione profonda dei singoli. Trasformazioni che possono essereampiamente previste ed ‘attese’, in un certo senso‘prescritte’ dalle regole trasformative riconosciute da un grupposociale, come avviene ad esempio nei rituali di iniziazione o in quelli dipassaggio, oppure trasformazioni più aleatorie e difficilmente predicibili,relative alle possibilità individuali ma sempre ‘attivate’ dalcontesto rituale in quanto specifico contesto di simbolizzazione, come accadead esempio nelle esperienze nei gruppi analitici.

Da segnalare infine la bella intervista-dialogo con Claudio Neri in cui idiversi temi affrontati nel testo vengono rivisitati alla luce della lungaesperienza clinica dell’intervistato, in particolare nei gruppi, e dellasua passione di vecchia data per le tematiche antropologiche.

Resta quasi come una sorta di ‘convitato di pietra’ il destinodell’inconscio, per così dire, in questo dialogo tra le due discipline.Tutti i fenomeni sociali studiati dall’antropologia infatti‘passano’ necessariamente attraverso l’incontro etnograficotra l’antropologo e i ‘nativi’, così come le singoleconfigurazioni culturali vengono sempre indagate a partire dalle relazioniinterpersonali significative all’interno delle quali possono esserecolte. La profonda e ‘costitutiva’ contaminazione della conoscenzaantropologica con la relazione con ‘l’altro culturale’ èormai ampiamente riconosciuta nella stessa letteratura antropologica.Nell’antropologia dialogica di matrice nordamericana si riconosce,infatti, da tempo la centralità dei ‘movimenti transferali’presenti all’interno delle relazioni etnografiche nell’influenzaree addirittura nel determinare le modalità delle acquisizioni conoscitive incampo antropologico. Ma secondo un’ottica psicoanalitica rigorosa non sipuò indicare così genericamente l’inevitabile flusso emotivo che pervadetutte le relazioni, ivi comprese quelle etnografiche, dal momento che siintende specificamente sottolineare come esse siano costantemente intercettateda emergenze inconsce che, per definizione, possono essere‘sciolte’ soltanto attraverso un ‘lavoro’ analitico. Il‘riconoscimento’ delle modalità inconsce continuamenteall’opera in tutte le transazioni sociali e in tutti i fenomeni culturalicostituirebbe allora, come sottolinea Assoun, un formidabile incremento dellacapacità conoscitiva delle scienze sociali che sarebbero finalmente in grado dicogliere quel “rovescio inconscio” del sociale che ne costituiscela verità più profonda.

L’auspicio, e il proposito, di Lombardozzi è allora che“un’antropologia che si colloca in questa area epistemologica noncontesta i ‘contenuti’ dell’inconscio, ma entra con i suoielementi ‘culturali’ nel discorso dell’inconscio‘costitutivamente’…” (p.110).

BIBLIOGRAFIA

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