Introduzione a Bion e Jung
Il confronto tra il pensiero di Bion ed il pensiero di Jung è diventato, negli ultimi anni, un settore di crescente interesse, per una parte almeno degli psicoanalisti e degli psicologi analisti, quella trasversalmente più aperta al dialogo e ad un atteggiamento ‘pluralista’ verso la conoscenza. Questo numero di ‘Funzione Gamma’ nasce dall’invito di Stefania Marinelli ad esplorare questo campo attraverso i contributi di autori provenienti da vari ambiti: psicoanalisi, psicologia analitica, psicoanalisi di gruppo. Appare necessario a mio parere fare una premessa relativa al ‘piccolo gruppo’ costituito dagli AA. qui presenti con i loro lavori. Esiste un intreccio estremamente complesso, storico e fantasmatico, in ogni incontro che affronti una tematica relativa ad un confronto tra autori che sia riconducibile alle vicissitudini della storia della psicoanalisi; e la vicenda che dapprima unì e poi separò Freud e Jung è da considerarsi, a mio parere, una sorta di antefatto mitologico, con aspetti traumatici ancora non completamente elaborati, che ha lasciato per trasmissione transgenerazionale le sue tracce nelle svariate generazioni di analisti dell’ una e dell’ altra scuola, ancora a distanza di più di un secolo. Quindi anche nel ‘campo’ – mi rifaccio alla concettualizzazione di ‘campo’ gruppale di Claudio Neri (2003) – del gruppo di autori di questo numero di ‘Funzione Gamma’ sono presumibilmente presenti tutte le stratificazioni delle dinamiche che sono intercorse tra queste due ‘etnie’ di appartenenza a partire dagli antenati divenuti ‘mitologici’, Freud e Jung. Bion è stato salutato come lo psicoanalista che ha profondamente modificato se non rivoluzionato la psicoanalisi di derivazione freudiana. Ad essa – nella sua versione kleiniana – aveva aderito, ad un certo punto della propria evoluzione, e nelle sue istituzioni si era formato come psicoanalista; anche se, come affermano Hinshelwood e Torres,
Bion era uno psicoanalista e psichiatra atipico. Arrivò piuttosto tardi alla psicoanalisi, dopo l’età matura, in un punto del ciclo di vita in cui aveva già sviluppato il suo pensiero adulto ed era stato plasmato da vari pensatori e linguaggi culturali, altri rispetto all’universo culturale di Freud (Hinshelwood e Torres, 2015, p.21)
Muovendosi all’interno di questa tradizione Bion ne ha però oltrepassato i confini, anche attraverso la rielaborazione di sue esperienze e teorizzazioni precedenti.
Questo richiamo ai momenti fondativi della psicoanalisi ed alla loro presenza stratificata nell’ ‘inconscio transgenerazionale’ degli analisti può, a mio parere, rendere ragione della presenza in alcuni di una sorta di fantasia ‘ricompositiva’ (tra i quali mi considero), che necessita però di essere attentamente monitorata. Uno dei rischi possibili è infatti quello che nell’ accostare questi due giganti del pensiero psicoanalitico, Jung e Bion, si tenda ad appiattirne le differenze, perdendo così la grande potenzialità del loro confronto dialettico; l’altro è che queste differenze vengano sopravalutate, e venga così sancita come ‘illusoria’ la ricerca di un sottostante pensiero unificante.
In campo junghiano sono stati notati elementi di similitudine, convergenza, o comunque risonanza, tra le concezioni di Jung e quelle di Bion, fin dall’epoca di comparsa dei libri di quest’ ultimo. Una particolare attenzione alla sua opera è stato appannaggio, soprattutto nel Regno Unito, della scuola ‘evolutiva’ – secondo la nota classificazione dei post-junghiani fatta da Andrew Samuels negli anni 80 del secolo scorso (Samuels 1986), successivamente da lui rielaborata e modificata (Samuels 2008). L’ attenzione rivolta alle opere di Bion in questo ambito si contestualizzava nella ricerca di un’integrazione con le concezioni della scuola kleiniana portata avanti soprattutto da Michael Fordham.
A questo proposito mi sembra interessante riportare alcuni commenti tratti da articoli o recensioni dei libri di Bion comparsi, alla loro uscita, sul Journal of Analytical Psychology. Nel recensire ‘Gli elementi della psicoanalisi’, Kenneth Lambert (1964) poneva l’accento soprattutto sull’ uso di elementi mitologici (Edipo, Eden, torre di Babele) da parte di Bion, visti come una forma primitiva di pre-concezione che costituiva uno stadio nella pubblic-azione, cioè nella comunicazione della conoscenza privata dell’individuo verso il suo gruppo, riscontrando un’affinità con l’interesse di Jung per la mitologia.
Ma di Bion, all’epoca, si era occupato soprattutto Fred Plaut. Nel recensire ‘Attenzione e interpretazione’, egli metteva in relazione il concetto di ‘realtà ultima ‘ e di ‘O’ con quello di ‘individuazione’ e poneva l’accento sulla concordanza tra alcune affermazioni di Bion e la fondamentale distinzione tra Io e Sé fatta da Jung:
Nel capitolo intitolato ‘Le bugie e il pensatore’ ci si può sorprendere nel leggere che più la conoscenza, l’esperienza e la personalità dell’analista appaiono essenziali ad un pensiero organizzato, più lontano esso risulti dal regno della ‘realtà ultima’, per cui viene preclusa la possibilità di un unisono (at-one-ment). Io posso soltanto integrare questa affermazione con quanto aveva prima detto sulla personalità dell’analista, suggerendo che Bion sta facendo una esplicita distinzione tra l’archetipo del Sé e l’Io, in un modo simile a come lo fa Jung […] Ma da qualsiasi angolo si guardi, questo libro contiene molto nutrimento per il pensiero e nessuna bugia consolatoria (Plaut 1972, p.215, mia trad.).
Ancora, in un articolo del 1974, Plaut si chiedeva se nell’ opera di M. Klein e di Bion (riferendosi in particolare agli oggetti parziali) potesse essere riscontrata una assonanza con la teoria degli archetipi, e arrivava alla conclusione di una sostanziale vicinanza delle tesi di Bion sulla ‘realtà ultima’ – O – con gli aspetti numinosi dell’archetipo del Sé:
Bion sembra aver dato il colpo di grazia all’ atteggiamento strettamente deterministico della psicoanalisi: egli getta dubbi sulla utilità di una conoscenza precostituita e preferisce guardare ai fenomeni delle transazioni analitiche come emanazione di una realtà ultima o verità assoluta, inconoscibile come tale. La differenza tra la sua tesi e gli aspetti numinosi dell’archetipo del Sé mi sembra puramente un problema di linguaggio (Plaut 1974, p.179, mia trad. e mio corsivo)
concludendo con una valutazione di ordine epistemologico:
Anche se rimangono delle differenze, le teorie psicodinamiche si sono notevolmente avvicinate negli ultimi, diciamo, quarant’ anni [Plaut scrive nel ’74!] e si può concludere che questo è dovuto al riconoscimento sia degli scopi comuni sia dei limiti di tutte le teorie, che sono comunque indispensabili. (Plaut 1974, p.180. Mia trad. e mio commento in [corsivo])
Successivamente Plaut (1977), nel recensire il libro Introduzione al pensiero di Bion di Grinberg, Sor, e Tabak de Bianchedi, dopo aver sottolineato le ‘evidenti somiglianze’ del concetto di ‘Trasformazione in O‘ con quello junghiano di individuazione, si interrogava sul perché Bion non facesse mai riferimento ai concetti junghiani di autorealizzazione e di individuazione. Concludeva considerandolo un esempio tipico del fatto che alcuni analisti hanno bisogno di inventare la propria terminologia al posto di quella dei loro predecessori o colleghi; e gli sembrava
un po’ sorprendente che Bion – che dedica attenzione al mito della Torre di Babele e nella prefazione avverte i suoi colleghi che le loro scoperte particolari possono non avere alcun significato generale, e anche che spera che il libretto contribuirà al raggiungimento della capacità di tollerare questo con modestia – cada nella stessa trappola. (Plaut 1977, p. 64, mia trad.)
Un punto importante sottolineato da Plaut nella stessa recensione era quello della possibile utilità, specialmente per uno junghiano, di accostarsi al pensiero di altri psicoanalisti per rielaborare il proprio punto di vista, e in particolare a quello di Bion; ma, nelle ultime righe qui sotto riportate, ironizzava sulla eventualità che uno junghiano potesse uscire dal proprio ambito di riferimento per affiancarsi a un Bion che utilizzava comunque una tecnica psicoanalitica rigorosa, astinente e fondata sul primato dell’ interpretazione.
La questione è se gli studi comparativi aiutino analisti di varia appartenenza, tutti ben ambientati nel proprio punto di vista specifico e nella propria cultura analitica a mettere in discussione, rivedere e, se necessario, riformulare ciò che sono arrivati a dare per scontato e così, se la fortuna li assiste, andare incontro a una nuova ‘evoluzione in O’. Se qualche junghiano dovesse essere tentato di allontanarsi dall’ovile, basterebbe che si rendesse conto che Bion si affidava a una tecnica puramente interpretativa – nessun riferimento a toccare il paziente, dare gratificazioni, parlare di sé stessi, ecc. Se questo non fosse sufficiente, ricordategli che la deprivazione, l’isolamento e la solitudine sono (secondo Bion) i prerequisiti emotivi per l’impostazione psicoanalitica, sia per il paziente che per l’analista. Questo potrebbe aiutarlo a decidere dove, nel campo della psicoterapia o dell’analisi, si trova il suo posto particolare. (Plaut 1977, p. 66, mia trad. e mio corsivo)
A partire da questi primi esempi, il confronto tra Jung e Bion è stato esercitato soprattutto rispetto alle opere dell’ultimo periodo di quest’ ultimo, quello successivo all’ introduzione del concetto di ‘O’ e di ‘Trasformazioni in O’, con cui inizia l’ultima fase del suo lavoro teorico. In essa Bion si allontanò sempre di più dalla matrice kleiniana ed ebbe profondi contrasti in seno alla Società Psicoanalitica britannica, che contribuirono alla sua decisione di trasferirsi in California nel 1968.
Il concetto di ‘trasformazione in O’ appartiene, secondo M. Manica (2021, p.130) ad un Bion “…quasi post-bioniano”. Questo passaggio fu paragonato da Grotstein al ‘passaggio del Rubicone’ da parte di Cesare, l’inizio di una ‘rivoluzione’ che si inoltrava in un terreno più instabile e misterioso, già da tempo esplorato da Jung, avvicinandosi alla spiritualità, al misticismo, alla religione. Tutte le costruzioni teoriche di Bion vennero messe in relazione con quello che era diventato lo scopo dell’analisi, la trasformazione in O (Dorella, 2021).
In campo psicoanalitico, tra gli Autori che più hanno approfondito lo studio del confronto tra Jung e Bion deve essere ricordato innanzitutto James Grotstein. Nel 1997, in un’intervista fattagli da JoAnn Culbert-Koehn, racconta che si era avvicinato allo studio delle opere di Jung perché
Jung era così arcano, tutti lo odiavano, passava per antisemita, c’erano brutte voci su di lui, così pensai che non potesse essere tutto così negativo (Culbert-Koehn, 1997, p. 30, mia trad.)
In un convegno del Centro Psicoanalitico Californiano svoltosi a Los Angeles nel 1993 Grotstein aveva sostenuto che Bion era vicino a Jung tanto quanto a Freud, suscitando un gelido protratto silenzio nel quale nessuno intervenne. (Culbert-Koehn 1997).
Riguardo alla rottura tra Jung e Freud, Grotstein sosteneva che questa rottura, che portò grande dolore ad ambedue, era del tutto non necessaria, perché le idee non appartengono a chi le origina, cosa di cui Bion fu invece consapevole– altrimenti si trattava di narcisismo, concludeva Grotstein in modo tranchant (Culbert-Koehn 1997).
Grotstein affermava:
Non so, ma credo che entrambi (Jung e Bion) stessero andando nella stessa direzione, in una sorta di linguaggio poetico che ha indicato che quello che possiamo vedere e conoscere è limitato dai nostri sensi. Vi è una coerenza al di là. Credo che sia una delle cose principali che unisce Jung con Bion, il fatto che vi è qualcosa al di là, prima, e nel futuro. Nelle loro teorie c’è un’attenzione al fatto che là ci sia un’intelligenza, una coerenza – quello che Bion chiamò Memoria del futuro (London, Karnac Books, 1991) Dio è forse lo pseudonimo per questo: ma io credo che Bion, come Jung, fosse in contatto non tanto con Dio quanto con qualcosa “al di là” (Culbert-Koehn, 1997, p. 17-18, mia trad.)
E su O:
Quando Bion scoprì O, non solo uscì dal conosciuto mondo della scienza logico-positivistica, ma oltrepassò un inviolabile perimetro della comprensione freudiana classica e kleiniana, facendo l’impensabile: invocare il misticismo, la religione, Dio. Ancora oggi nel mondo psicoanalitico è apprezzato e lodato per la parte del suo lavoro che arriva fino a Trasformazioni in O, non oltre. La mia personale opinione è che O sia una delle più importanti scoperte psicoanalitiche del secolo. (Grotstein, 1998, p. 48, mia trad.)
In questo lavoro Grotstein riconosceva che la psicologia analitica junghiana si è occupata del problema del Soggetto agente da lungo tempo, e che Jung è stato, per molti anni, l’unico che ha osato studiare la radice religiosa del Soggetto analitico, fino all’arrivo di Bion. A questo proposito egli citava il saggio Psicologia e religione di Jung (1938-40); da questo confronto emergeva che il Sé di Jung aveva caratteristiche simili a quelle che Grotstein attribuiva al Soggetto dell’inconscio, come qualcosa di esistente a priori dal quale evolve l’Io (per cui “io accado a me stesso”).
Grotstein si chiedeva quindi se l’inconscio fosse da considerarsi un primitivo “calderone ribollente” (seguendo un modello freudiano) o una organizzazione metacosciente con qualità uniche ed ineffabili (un modello che ricorda molto quello junghiano) – o, ipotizzava, forse ambedue?
Io credo che il Soggetto, come l’Inconscio stesso, appartenga al dominio dell’ineffabile, l’imperscrutabile, il sacro, il sempre elusivo, forse anche le parti semi-divine di noi stessi. Dato che l’Inconscio rappresenta la Verità Assoluta o la Realtà Ultima, il Soggetto rappresenta la sua personificazione soggettiva come Realtà Psichica (ivi, p. 51, mia trad. e mio corsivo) (1)
Secondo Grotstein Bion aveva imparato molto da Jung, a partire dalle conferenze cui aveva assistito, insieme al suo paziente Samuel Beckett, nel ’35 alla Tavistock Clinic di Londra, dove allora lavorava. Questo incontro personale (l’unico nella vita di ambedue) ha assunto un po’ il significato di un ‘fatto scelto’, nella terminologia bioniana, per tutti quelli che si sono interessati al confronto tra questi due autori.
Jung vi tenne cinque conferenze tra il 30 settembre e il 4 ottobre del 1935, su invito dell’allora direttore (e fondatore della Tavistock nel 1920) Hugh Crichton-Miller. In quel periodo la Tavistock era una scuola di psicoterapia un po’ particolare, che adottava un approccio eclettico integrando idee sia di Freud che di Jung. Per questo motivo era avversata dalla Società Psicoanalitica britannica, il cui fondatore Ernest Jones sembra avesse proibito agli psicoanalisti di lavorarci (Hinshelwood 2013).
Il responsabile della didattica era James A. Hadfield, il cui orientamento era molto rivolto a Jung; Bion fu in terapia con lui per qualche anno prima di entrare alla Tavistock (Hinshelwood 2015, p.97).
Sembra che Beckett osse andato in terapia da Bion (allora soltanto psicoterapeuta formato alla Tavistock e non ancora psicoanalista qualificato) per un blocco della scrittura, e che la situazione terapeutica fosse in stallo, tanto che Bion gli propose di andare a sentire insieme questa conferenza di Jung, per sbloccare la situazione.
In una di queste conferenze fu l’interpretazione di un caso, da parte di Jung, come di ‘una bambina mai nata’ – viene riferito da Beckett stesso, secondo il suo biografo Bair, citato da Maier (2016) a produrre una forte impressione su ambedue, tanto che lo scrittore risolse rapidamente la sua sintomatologia e, due mesi dopo, terminò il trattamento con Bion e ritornò a Dublino (contro il parere di Bion) (Maier, 2016).
Gli interventi di Bion alla discussione sono riportati nella edizione delle opere complete di Jung (Jung,1935)
Christian Maier (2016) ha indagato in modo approfondito su questo incontro. Nel corso tempo, sostiene, si è molto speculato sulla possibilità che Jung abbia esercitato un’influenza a lungo termine su Bion proprio a partire da queste conferenze. Ricorda che, per esempio, Fordham aveva dichiarato di non poter credere che Bion non avesse tratto qualcosa da esse, <<perché era presente>>, ma di pensare che avrebbe potuto non essere consapevole di questa influenza. Secondo Maier particolarmente importante è la quinta conferenza, perchè in essa Jung
lavorava su temi che saranno centrali nell’opera di Bion – nel modello del contenitore, e nella versione bioniana dell’identificazione proiettiva (Maier, 2016, p.135, mia trad.)
Il ‘modello del contenitore’ si riferisce alla successiva concezione del contenitore/ contenuto in Bion. Esso era apparso per la prima volta in uno scritto di Jung del 1925, ‘Il matrimonio come relazione psicologica’ (Jung 1925) in cui si parlava del ‘problema del contenitore e del contenuto’. Maier fa l’ipotesi che si sia trattato di una sorta di criptomnesia da parte di Bion (analoga, per esempio, a quella di Freud per la derivazione del concetto di ‘bisessualità’ da Fliess) alla cui genesi avrebbe contribuito anche la incompletezza del modello proposto da Jung. Nel commento editoriale ad opera di Chris Mawson (2014) delle Opere complete di Bion (2014), in una nota si afferma esplicitamente che Bion aveva usato una terminologia che << gli era rimasta dalla lettura di un lavoro sul matrimonio, di Carl Jung (1925) >>.
Grotstein afferma che Bion << non era uno studioso che citava le opere altrui. Per esempio, “memoria e desiderio” è di T. S. Eliot, e questo è solo un esempio. Io credo che Bion abbia imparato molto da Jung, e sarei stato più felice se l’avesse citato >> (Culbert-Koehn, 1997, p.16, mia trad.). D’altra parte, è stato affermato che
Bion [a differenza di Freud] scriveva in uno stile non lineare, labirintico ed enigmatico, non rivelando volutamente le sue fonti e guardando oltre la maggior parte di esse, presumibilmente per ottenere prospettive fresche, differenti apici di realtà, non saturati dalla memoria e non contaminati dal pregiudizio intellettuale. Il suo stile narrativo è più beckettiano che shakespeariano (Hinshelwood e Torres, 2015, p.21, corsivo mio)
Sappiamo, da una comunicazione fatta da Parthenope Bion Talamo all’analista junghiano Augusto Romano (2), che Bion conosceva bene ed apprezzava il pensiero di Jung. Tra gli ‘ultimi progetti’ di Parthenope, interrotti purtroppo dalla sua prematura scomparsa, c’era un libro, da molti anni in preparazione per Karnac, sulle radici storiche delle teorie del padre, il cui titolo avrebbe dovuto essere ‘Bion e i suoi libri – Sentieri per il mondo di Bion‘. Nei suoi appunti è stato trovato un indice provvisorio del volume, in cui il capitolo ‘Parte due; brancolando verso la psicoanalisi’, era suddiviso in tre paragrafi: a) Psicoterapia-sentirla nel passato b) Tavistock c) Jung d) Training psicoanalitico ufficiale (Hinshelwood e Torres, 2015, p.23, corsivo mio)
Questo a sottolineare il rilievo che Parthenope Bion attribuiva alla presenza di qualcosa che riguardava Jung tra le esperienze formative del padre.
Anche Matt ffytche, che si è interrogato sulle fonti di Bion per ‘Memoria del futuro’ nel periodo ‘californiano’, afferma
Sono state proposte svariate influenze, compreso l’impatto con l’ambiente californiano lo spirito anticulturale degli anni ’70; l’influenza a lungo termine dell’analisi di Bion negli anni ’30 con Samuel Beckett […]; l’incoraggiamento di un altro analizzando, Roland Harris […]; e un’altra influenza di lunga durata, C.G.Jung, il cui lavoro Bion aveva conosciuto alle lezioni presso la Tavistock nel 1935( ffitche 2015, p.294, corsivo mio)
Nel complesso dell’opera di Bion, però, i riferimenti a Jung non sono molti. Talvolta lo ha nominato, insieme ad Adler, come appartenenti al primo gruppo di psicoanalisti che, seguendo Freud, nello studio dei fattori emotivi che influenzano le relazioni avevano introdotto la considerazione dell’inconscio; oppure con Stekel, M. Klein, Abraham ed altri, come analisti che, per comunicare la propria esperienza, si erano trovati nella necessità di sviluppare teorie diverse da quelle di Freud, pur partendo da lui.
I riferimenti di Bion a Jung spesso sono critici verso la concezione dell’Inconscio collettivo, che talvolta definisce – per rifiutarlo – ‘Inconscio di gruppo’ (group unconscious). Sembra però, allo stesso tempo, cercare qualcosa che si avvicina a questa concezione:
Qualche volta diventa chiaro allo psicoanalista che i confini della persona non corrispondono alla sua struttura anatomica. Melanie Klein, come le ho sentito dire direttamente, pensava che non ci fosse alcun mistero nei movimenti apparentemente concertati in un gruppo di analizzandi, oltre a quello che potrebbe essere spiegato con la relazione di transfert con lo stesso analista. Teniamo la mente aperta. Io non sento la necessità di postulare la percezione extrasensoriale, un istinto gregario, come fa Trotter, o l’inconscio collettivo come fa Jung.Penso tuttavia che nella personalità vi può essere qualcosa di analogo al sistema dei capillari sanguigni che in condizioni ordinarie è in riposo, ma in condizioni eccezionali può dilatarsi, come nello shock chirurgico. L’analogia consisterebbe in una iperstimolazione dell’individuo a formare gruppi, tale da far ricadere nell’inconscio la sua capacità di comportamenti coscienti e sofisticati. Freud sosteneva che poteva esserci del vero nella teoria di Weissmann sulla personalità dell’individuo concepita come subordinata al plasma germinativo [Freud, S. (1915c). Instincts and their vicissitudes. Standard Edition, 14:117- 140.] (Bion, 1981, pp .66-67, corsivo mio)
Quasi al termine della sua vita, nel periodo californiano, durante un seminario tenuto nel 1978 a Los Angeles un partecipante gli chiese se quello che aveva esposto riguardo ad una mente primordiale presente nell’uomo come una vestigia, tipo le tasche branchiali, non fosse simile agli archetipi di Jung. La risposta di Bion fu:
<<Penso che probabilmente parlava della stessa cosa. Esiste qualcosa come una mente fondamentale, qualcosa che sembra rimanere inalterata in tutti noi >> (Bion, 1978, p.62 mia trad.)
Anche nell’ambito junghiano, a mio parere, l’interesse per il confronto tra Jung e Bion ha avuto di nuovo un notevole impulso proprio a partire dal bioniano Grotstein, che ha pubblicato diversi articoli sul Journal of Analytical Psychology. Dagli anni ’90 del secolo scorso, infatti, sono comparsi numerosi articoli e monografie su temi ad esso collegati, ad opera specialmente di analisti junghiani dell’area californiana e londinese. Tra essi vorrei qui ricordare Barbara Stevens Sullivan con una monografia del 2010 e Ann Addison – che contribuisce anche a questo numero con un suo contributo – che oltre a vari articoli ha pubblicato nel 2019 una monografia sul concetto junghiano di ‘psicoide’, in cui una parte importante è dedicata al confronto con il concetto di ‘protomentale’ in Bion.
Il percorso inverso, il confronto tra Bion e Jung fatto da analisti appartenenti ad ambienti psicoanalitici di derivazione freudiana, sembra assai meno praticato, e quasi inesistente prima di Grotstein. Un caso particolare, almeno per quanto riguarda l’Italia, è rappresentato dagli analisti orientati verso la psicoanalisi di gruppo ad orientamento bioniano – che hanno la loro origine sia teorica che storica nel pensiero e nell’ attività di Francesco Corrao – alcuni dei quali sono da tempo interessati al pensiero di Jung (un esempio tra tutti quello di Claudio Neri che si riferisce spesso, nei suoi lavori e nei suoi libri, alla concezione junghiana della sincronicità). Sembra che, tra gli psicoanalisti freudiani, sia stata proprio la dimensione gruppale – e la sua lettura bioniana – a sollecitare maggiormente l’interesse per Jung (3); e questo è abbastanza sorprendente perché in contrasto con un luogo comune che vuole Jung non interessato, se non ostile, ad essa. Riprenderò questo punto nel presentare alcuni lavori di questo numero.
Comunque, in Italia, è stato recentemente uno psicoanalista freudiano, Mauro Manica – estendendo, in modo forse un po’ provocatorio, le tesi di Grotstein – a sostenere che Bion può forse essere considerato l’erede più significativo di Jung:
Possiamo allora pensare che ci sia un pensiero junghiano sommerso che ha infiltrato prima ed è poi vulcanicamente riemerso nell’ evoluzione epistemologica (e teorica) della psicoanalisi? […] Se è stata proprio l’espansione del concetto di inconscio la causa prima implicita della diaspora tra il pensiero freudiano e quello junghiano, non potrebbe essere stato proprio Bion, il nuovo Maestro, della nuova psicoanalisi, a diventare il depositario (il termine ultimo) di un lascito ereditario eretico e sovversivo: o meglio, di un sommerso-non-completamente-ospitato e non-ancora-pensabile per la mente (e per la psicoanalisi) di Freud? (Manica, 2013, p.158)
Manica, che ha dato il suo contributo a questo numero di ‘Funzione Gamma’, in seguito ha sviluppato questo concetto in numerosi articoli e volumi in cui ha indagato il contributo, spesso non riconosciuto, alla psicoanalisi attuale di molti AA. un tempo considerati ‘eretici’ dalla ‘psicoanalisi ortodossa’.
Il confronto tra le concezioni di Jung e quelle di Bion, del cui procedere ho cercato di tratteggiare un breve profilo storico, mi sembra possa assumere alcune connotazioni, che proverò ad enunciare; con la consapevolezza che è necessaria una ricerca più approfondita e sistematica delle motivazioni che possono spingere analisti di varia formazione a intraprenderlo
1) Per gli junghiani esso si può situare nell’ambito più generale della ricerca di elementi ‘junghiani’ (somiglianze o consonanze con aspetti del pensiero di Jung) nella produzione degli autori post-freudiani. Elementi che, anche se non sempre sovrapponibili, in effetti spesso possono essere riscontrati, a testimonianza della straordinaria ricchezza del pensiero di Jung, anche se esso è stato espresso in modo per lo più non sistematico.
La presenza di questi elementi conferma anche, a mio parere, il profondo radicamento di Jung nella rivoluzione psicoanalitica degli inizi del secolo scorso e la legittimità della sua appartenenza ad essa, nonostante l’ostracismo (4) a lungo esercitato nei suoi confronti dalle istituzioni della Psicoanalisi di derivazione freudiana. Il rischio di questa operazione, fatta dagli junghiani, è quello di indulgere ad una sorta di ‘revanscismo’ del tipo: “ma questo lo aveva già detto Jung!”; che se da una parte permette di ovviare a evidenti rimozioni nella storia, dall’ altra può ostacolare il riconoscimento di peculiarità specifiche dell’atteggiamento junghiano non viste come contrapposizione a Freud ed ai suoi epigoni. Sappiamo d’altronde che il pensiero di ambedue, Freud e Jung, si era evoluto dal momento della loro separazione, ma della consapevolezza di questo c’è poca traccia nelle opere successive di ambedue; e sappiamo anche che lo storico della psicoanalisi Paul Roazen sosteneva nel 1976 (Roazen 1976) che nessuno nella Società Psicoanalitica avrebbe avuto qualcosa a che ridire se uno psicoanalista avesse sostenuto allora le idee che Jung portava avanti nel 1913.
Nell’ambito di questi confronti con i post-freudiani, quello con Bion in particolare mi sembra possa attrarre gli junghiani per alcuni aspetti: la sua visionarietà, il suo avventurarsi, fino al rischio di accuse di ‘misticismo’(5), nel terreno mitologico e religioso così largamente esplorato da Jung, il suo uso della intuizione, il suo contrasto con l’establishment psicoanalitico, perfino l’accusa di ‘psicosi’; tutti fattori che lo accomunano a Jung in un modo inedito per qualsiasi altro autore post-freudiano.
Comunque, come afferma Samuels (2000), negli ultimi decenni è avvenuta una sorta di “ritorno di Jung dall’esilio”, sia negli ambienti clinici che in quelli accademici legati alla letteratura o alla storia delle religioni. Barbara Stevens Sullivan (2010) fa un parallelo tra il destino di Jung e quello del gesuita scienziato e filosofo Teilhard de Chardin (che Jung stava leggendo poco prima della morte) che sosteneva la presenza nell’universo di un nucleo intenzionale, ma ineffabile. Stevens Sullivan sostiene che gli scritti teologici di Teilhard de Cardin sono stati per anni messi ‘all’ indice’ dal Vaticano, ma che ora invece il suo lavoro vi viene stimato in quanto ‘visionario’; qualcosa di simile starebbe avvenendo per Jung nell’ambito psicoanalitico.
Anche gli junghiani, comunque, secondo Samuels (2000) si sono modificati negli ultimi decenni. Attualmente, sostiene (Samuels 2008), sarebbero individuabili quattro gruppi o ‘scuole’ tra i seguaci di Jung: fondamentalista, classica, evolutiva, psicoanalitica. In particolare, per il nostro tema, vorrei soffermarmi su quest’ ultima ‘scuola’, che Samuels considera, al pari della prima (quella ‘fondamentalista), una forma di ‘estremismo’. In essa – diffusa soprattutto in Inghilterra, Germania e negli USA – si manifesterebbe infatti, secondo Samuels, una tendenza alla ‘fusione’ con le concezioni della psicoanalisi, conseguente ad una idealizzazione, in particolare sul piano clinico, della psicoanalisi freudiana e post-freudiana. Essa si manifesterebbe attraverso una valorizzazione eccessiva del setting, con i suoi aspetti di astinenza e neutralità rispetto alla relazione analitica, mentre verrebbero trascurati i contenuti (le immagini soprattutto); la conseguenza sarebbe la perdita delle specificità del pensiero e della clinica junghiana, fondate in ultima analisi sull’ approccio ermeneuticoal materiale clinico, quindi non causalistico, ma legato al senso. Mi sono chiesto se anche l’interesse per Bion, manifestato da molti junghiani, possa essere legato a questa modalità; mi sembra però che si tratti di due posizioni ben diverse. Quando parla di psicoanalisi freudiana e post-freudiana, Samuels si riferisce ad una disciplina molto caratterizzata da un ‘sapere’ sul piano teorico e tecnico; ma essa è stata – e continua ad essere – rivoluzionata dal contributo di Bion, in una direzione che la rende, ora, in qualche modo più suscettibile di articolazione integrativa con la psicologia analitica. Grotstein, del resto, parlava di un Bion ‘a metà strada’ tra Freud e Jung.
2) Per quanto riguarda i ‘bioniani’, ho l’impressione che almeno una parte del loro interesse per Jung possa derivare dalla sua concezione degli archetipi e dell’inconscio collettivo, in particolare per i così detti ‘gruppologi’. Il concetto di ‘inconscio collettivo’ può essere pensato come uno dei possibili fondamenti di una attività psichica, diciamo così, che eccede l’individuo; inoltre già la psiche dell’individuo, per Jung, è comunque una psiche complessa, in cui i complessi sono relativamente autonomi e si organizzano attorno a un centro costituito dal Sé. Questa visione della psiche è fortemente evocativa della ‘gruppalità interna’, concetto sviluppato da psicoanalisti come Pichon-Riviere, Napolitani, Resnik, Hautmann, Kaës, ed altri. Come prima accennato, Bion sembra aver rifiutato questa concezione: o almeno, forse si può pensare, lo ha fatto una sua parte, che in ‘Memoria del Futuro’ è il personaggio dello Psicoanalista (P.A.):
P.A. a volte mi chiedono se consiglio di fare una psicoanalisi; incontro molte ostilità perché dico che questo non fa parte dei consigli che sono qualificato a dare. Riconosco che il semplice fatto di essere ciò che sono suggerisca qualcosa al paziente, ma credo che sia mio dovere mostrargli l’impulso di cui egli spesso non si rende conto.
Prete: Questo non l’ha detto Jung?
P.A. Jung disse che era d’accordo con la descrizione del transfert fatta da Freud; parlò anche di archetipi e di inconscio collettivo. Non vedo nessuna ragione per cui egli non debba chiamare la figura di Edipo un archetipo se vuole farlo, o dire che un equivalente della figura di Edipo esiste in ogni essere umano. Ma non vedo nessuna necessità di aumentare i fatti e la teoria di Freud; se trovassi un mod migliore di formulare una dimostrazione non esiterei a usarlo. Il postulato dell’inconscio collettivo mi sembra non necessario. Non direi che poiché due persone vedono una montagna questa è la prova di un ‘occhio collettivo’; è più semplice dire che tutte e due quelle persone hanno gli occhi che funzionano in modo simile. Non userei un’espressione che può rischiare un aumento dell’ambiguità: ce n’è già abbastanza (Bion,1998, p.205-206)
3) Matte Blanco (1981, p.467), in un lavoro molto interessante dell’81 dal titolo ‘Riflettendo con Bion’, comparso in un numero monografico della Rivista di Psicoanalisi dedicato a Bion, afferma:
Alcuni” bioniani” mi danno l’impressione di essere piuttosto meccanici. Dal modo in cui impiegano i concetti di elementi alfa e beta, O, K, etc. essi sembrano allo stesso tempo rozzi ed approssimativi. Forse vi è in questo una pigrizia che porta a ripetere delle parole che alla fine diventano prive di senso. Lo loro paura deriverebbe dalla paura di pensare e quindi di affrontare cambiamenti catastrofici […] non è quindi sorprendente che molti preferiscano afferrarsi a concetti trasformati in stereotipi
Poi (p. 468) si corregge:
[…] Dopo tutto non solamente quelli bioniani ma ognuno di noi è spaventato
In realtà, quando entriamo nella stanza di analisi, come giustamente fa notare Bion (6) siamo tutti spaventati – o dovremmo essere consapevoli di esserlo – sia che siamo junghiani, freudiani, bioniani, kleiniani, lacaniani, ecc. Tutti possiamo essere meccanici, rozzi ed approssimativi come << quei bioniani >> stigmatizzati da Matte Blanco; il rischio, di cui parla Matte Blanco, di << afferrarsi a concetti trasformati in stereotipi >> è trasversale ad ogni scuola di pensiero teorico e di prassi clinica, ed ogni analista dovrebbe conoscerlo.
Un possibile salvagente di fronte ad esso può essere costituito dal confronto continuo tra i vari pensieri teorici che, ormai da più di un secolo, con l’applicazione del metodo analitico sono emersi, si sono intrecciati, confrontati ed anche spesso combattuti nel campo psicoanalitico nella sua accezione più estesa. Bion ha parlato di ‘pensieri senza pensatore’, e Jung ha espresso un concetto simile nella sua autobiografia:
Filemone diceva che mi comportavo con i pensieri come se fossi io a produrli, mentre, secondo lui, i pensieri erano dotati di vita propria, come animali nella foresta, o uomini in una stanza, o uccelli nell’ aria. (Jung, 1961, p.226)
Ogden (2022,) distingue tra una psicoanalisi epistemologica (relativa al conoscere ed al comprendere) ed una psicoanalisi ontologica (relativa all’essere ed al divenire). Negli ultimi settanta anni, afferma, si è verificato un cambiamento radicale, anche se in modo un po’ sotterraneo e sottotono, con un passaggio di accento dalla psicoanalisi epistemologica a quella ontologica– anche se ambedue sono naturalmente presenti in ogni psicoanalisi, è una questione di grado e di attenzione. Emblematici della prima secondo Ogden sono Freud e M. Klein, mentre individua i principali rappresentanti della seconda in Winnicott e Bion. Poi Ogden elenca ben diciotto autori, in ordine alfabetico da Balint a Williams, che a suo parere hanno contribuito allo sviluppo dell’aspetto ontologico della psicoanalisi – tra i quali, un po’ sorprendentemente ma non troppo, non c’è Jung. Evidentemente Ogden non lo considera un autore appartenente al mondo psicoanalitico, dato che l’accento di Jung sul versante ‘ontologico’ mi sembra indubitabile.
Barbara Stevens Sullivan afferma che il concetto bioniano di O fornisce un legame con molta parte dell’opera di Jung, e che tenendo in mente ambedue le visioni – quella di Jung e quella di Bion – possiamo arrivare ad un quadro molto più pieno della nostra posizione nel mondo, una posizione di profonda vulnerabilità.
La verità non può essere conosciuta, e questa verità – il mistero fondamentale della vita – è sopportabile solo per poco, e solo nel contesto di una relazione di amore. Siamo essenzialmente perduti nel mondo, incapaci perfino di districare quello che abbiamo all’interno da quello che ci viene dall’ esterno, distinguere tra chi siamo noi e chi è l’altro. Il livello di vulnerabilità che questo implica è straordinario, e noi ci difendiamo strenuamente da farne una piena esperienza. Ed è fortemente disorientante riconoscere che quello che la fisica moderna ci insegna sul mistero intrinseco all’ universo si applica a noi come alle particelle subatomiche […] Queste esperienze disorientanti, che possono emergere soltanto nel contesto di una relazione – trasformazioni in O – sono il cuore del[nostro] lavoro, ma[…] è –K ad alimentare sia l’uso eccessivo della parola “scientifico” nei nostri lavori, sia il rifiuto dello studio dell’istinto religioso della psiche sia, credo, lo straordinario annichilimento di Jung e del suo lavoro da parte della comunità psicoanalitica (Stevens Sullivan B., 2010, p.258-259, mia trad. e mio corsivo)
Questa citazione mi permette di passare alla presentazione di questo numero di ‘Funzione Gamma’. Esso, infatti, si è mosso nella direzione contraria rispetto a -K, evocato da Stevens Sullivan, aprendosi invece a un confronto dialettico, appannaggio di una concezione della psicoanalisi non ristretta ad ambiti di ‘scuola’ o di ‘società’. Jung e Bion certamente sono stati due giganti del pensiero psicoanalitico – o del pensiero in generale – e lo studio comparato del loro contributo alla conoscenza della vita psichica, fondato sull’ amore per la verità, può essere molto fecondo e vitale per essa. Si tratta comunque di un campo davvero sterminato, di fronte al quale non possiamo che armarci di umiltà, pazienza e ‘capacità negativa’.
Alcuni dei lavori qui raccolti sono esclusivamente teorici, in altri ci sono esemplificazioni cliniche a livello di terapie individuali e di gruppo.
Il numero si apre con il lavoro di Ann Addison, che attraverso lo sviluppo storico a partire dalle loro esperienze personali durante la Prima guerra mondiale, mette a confronto le idee di Jung sul collettivo e quelle di Bion sui gruppi. In particolare, vengono indagati i concetti di ‘psicoide’ in Jung e di ‘protomentale’ in Bion, che mostrano aspetti sovrapponibili, ma anche divergenti per quanto riguarda gli interessi prevalenti dei due AA. e quindi l’applicazione dei loro concetti. Il confronto tra questi due concetti a mio parere è un aspetto centrale di tutta la tematica di cui questo numero si occupa.
Brigitte Allain-Dupré introduce il lettore in un campo clinico legato ai recenti sviluppi della tecnologia bio-medica ed alle loro ripercussioni sul mondo fantasmatico dei soggetti in essa coinvolti e più in generale della società. La delicata terapia di Martino, bambino di otto anni nato da una procedura di PMA (Procreazione Medicalmente Assistita), attraversa il vissuto controtransferale dell’analista e la pone in contatto con aspetti profondi, legati alla vita ed alla morte, nell’ elaborazione dei quali le si rivela particolarmente significativa una prospettiva teorica in cui le visioni di Jung e di Bion si integrano.
Mauro Manica in una prima parte teorica indaga la tematica dell’identificazione proiettiva, considerata uno dei possibili ‘ponti di connessione ‘ tra il pensiero di Bion e quello di Jung, e poi affronta quella delle ‘matrici junghiane del pensiero di Bion’, cogliendone gli aspetti strutturali che sono al di là delle ricostruzioni storiche sulla possibile influenza diretta di Jung su Bion. Nella seconda parte del suo contributo Manica presenta un ‘caso clinico’ molto particolare, quello relativo all’ analisi che l’attore e regista Clint Eastwood effettuò con Bion agli inizi degli anni 70, nel periodo ‘californiano’ di Bion.
Stefano Carta fa una revisione sistematica e molto approfondita, articolata in dieci punti, delle principali aree di convergenza (o meno) tra il pensiero di Jung e quello di Bion, identificando un paradigma comune; da esso, sostiene, emerge la possibilità di un utile confronto sul piano epistemologico e su quello clinico. Il lavoro è molto ricco di riferimenti alle opere dei due autori ed il lettore è condotto, passo passo in modo serrato, al loro confronto.
L’articolo di Roberto Manciocchi utilizza il concetto di ‘oblio – controparte necessaria a quello di ‘memoria ’ e aspetto particolare del ‘valore del negativo’ – come chiave per entrare in una concezione di psicoterapia volta alla ricerca del senso, che caratterizza ambedue i maestri. In questo contesto, sullo sfondo della riflessione sul linguaggio di Wittgenstein, vengono messi a confronto i concetti di ‘evoluzione della seduta’ in Bion e di ‘imaginatio vera’ di Jung (tratto dagli scritti alchemici). L’ autore sottolinea lo stretto legame tra una prassi psicoterapeutica fondata sulla verità e una considerazione di tipo etico.
Il due ultimi contributi, di Manfredo Lauro Grotto e di Paola Russo e coll., si estendono maggiormente nell’ambito della clinica, sia individuale che gruppale, in un contesto ‘bioniano ‘ il primo, e ‘junghiano’ il secondo.
Manfredo Lauro Grotto nel suo lavoro introduce un concetto originale ed innovativo, quello di ‘trasformazioni frattali simmetrico sincronicistiche’, che propone di aggiungere ai gruppi di trasformazioni individuati da Bion in ‘Trasformazioni’. Questo concetto deriva dall’integrazione di punti di vista di Jung, Bion, Matte Blanco e Neumann, in un modello unitario che permette, secondo Lauro Grotto, una migliore messa a punto delle complesse relazioni tra inconscio individuale ed inconscio collettivo. In questa ottica le varie teorie elaborate in più di un secolo di vita della psicologia del profondo dai potrebbero essere << […] considerate articolazioni e declinazioni locali, delle Trasformazioni di un campo globale inconscio, che ogni scuola di pensiero dal suo specifico vertice contribuisce ad illuminare >>.
Paola Russo, in un contributo scritto insieme a Cristina Brunialti, Salvatore Agnese, Pasquale Caulo e Federica Sebasta, pone a confronto due aspetti in qualche modo anche ‘tecnici’, l’amplificazione in Jung e la rêverie in Bion, attraverso i loro modi di manifestarsi nella clinica individuale ed in quella gruppale. Mi sembra importante sottolineare un aspetto particolare rispetto alla clinica gruppale. Come prima accennato, è un luogo comune citare una diffidenza, se non denigrazione, del gruppo da parte di Jung (7) motivata dal fatto che la mentalità ‘collettiva’, che si manifesta nei gruppi, sarebbe stata per lui di ostacolo al processo di individuazione – d’ altra parte anche M. Klein era ostile ai gruppi, e questo sembra che sia stato un problema per Bion. In realtà, esaminando il testo junghiano in modo approfondito, si mettono in evidenza degli insospettati e numerosi punti di incontro con la psicologia dei gruppi (8).
Nel pensiero di Jung Individuazione e Collettivo sono una coppia di opposti in costante relazione reciproca; in ‘Riflessioni teoriche sull’ essenza della psiche’ egli afferma:
Sembrerà forse superfluo, a chi conosce la psicologia complessa, illustrare ancora una volta la differenza – chiarita ormai da tempo – tra il divenire coscienti e la realizzazione del Sé (individuazione). Continuo a vedere però che il processo di individuazione è confuso con il divenire cosciente dell’Io, e quindi l’Io viene identificato con il Sé, con l’ovvia conseguenza di un’irrimediabile confusione. Perché in tal modo l’individuazione diventa semplice egocentrismo ed autoerotismo. Invece il Sé racchiude infinitamente di più che un Io soltanto, come dimostra da tempo immemorabile la simbologia: esso è l’altro o gli altri esattamente come l’Io. (Jung 1947/1954, p.243, corsivo mio)
Note
1. Il riferimento alla Realtà Psichica, a mio parere, costituisce una chiave di lettura particolarmente pregnante per il confronto tra Jung e Bion; ho sviluppato questo concetto in una relazione dal titolo ‘La Realtà Psichica tra Individuazione e Trasformazione in O’ tenuta al Convegno Nazionale A.R.P.A.‘C.G. Jung e W.R. Bion: alla ricerca del Sé’, Lucca, 10 settembre 2022 (in corso di stampa).
2.<< Partenope Bion, che praticò in Torino la professione di psicoanalista, ebbe a dirmi personalmente che suo padre conosceva bene e molto apprezzava il pensiero di Jung>> afferma Augusto Romano, in Musica e analisi (nota 95), conferenza di apertura dell’Anno Accademico 2019 dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA) (testo rintracciabile sul sito AIPA https://www.aipa.info/)
3. Nel corso del tempo questo interesse dei ‘gruppologi’ si è declinato in varie occasioni di conferenze, seminari e pubblicazioni, tra cui possono essere citati come esempi: lo stesso Claudio Neri nel1999, insieme ad Alessandro Bruni, invitò Giuseppe Maffei a tenere una conferenza sul pensiero junghiano confronto tra il pensiero di Jung e quello di Bion al Centro ‘Il pollaiolo’ di Roma (Maffei,2001). Nell’ambito del CRPG di Pisa Maria Bruna Dorliguzzo nel 2016 organizzò un seminario sul confronto tra Jung e Bion, cui ha partecipato lo scrivente (atti pubblicati in Psicoanalisi e Metodo, Vol.XVII, 2018, Pisa: ETS). Per non parlare naturalmente dell’invito di Stefania Marinelli a curare questo numero di Funzione Gamma.
4.L’ostracismo ‘ufficiale’ di tanta parte del mondo freudiano verso l’opera di Jung non fu sanato neanche con l’iniziativa di Wallerstein della fine degli anni ’80 del secolo scorso sul ‘common ground’ in psicoanalisi, che invece permise il riavvicinamento della Società Psicoanalitica ai c.d. ‘neofreudiani’ o ‘culturalisti (seguaci di Sullivan, Karen Horney, Fromm etc.), chiudendo in parte una ferita molto sentita negli USA.
5.Giuseppe Maffei, a partire dal concetto di Realtà Psichica, ha fatto un interessante confronto riguardo al possibile ‘misticismo’ dei due AA. << […] Bion, in qualche modo oltre Jung, propone un misticismo che non rischia di annullare l’importanza delle piccole cose. La realtà ultima, se l’ho ben compresa, non è al di là della realtà psichica ma è la stessa realtà psichica all’ unisono con O, che non ne è al di là, ma anzi la costituisce. Jung, a mio avviso ha mantenuto invece aperta la possibilità di un al di là della stessa realtà psichica>> (Maffei, 2001, p. 296, corsivo mio).
6. << Analogamente in psicoanalisi, quando ci accostiamo all’ inconscio – che è ciò che non conosciamo e non ciò che conosciamo – noi, paziente e analista insieme, siamo certi di essere turbati […] Nella stanza d’ analisi ci dovrebbero essere due persone piuttosto spaventate: il paziente e l’analista. Se non lo fossero ci si potrebbe chiedere perché si stiano tanto preoccupando di scoprire ciò che ciascuno conosce>> (Bion,1974b, pp. 104-105).
7.appare quindi curioso, a prima vista, che uno dei pionieri della psicoanalisi di gruppo, Trigant Burrow (psichiatra e psicoanalista americano che coniò il termine stesso di ‘terapia di gruppo’) fosse stato prima analizzato proprio da Jung, agli inizi del secolo scorso.
8. così sostengono Zanasi e Pezzarossa (1999).
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Stefano Carrara. Psichiatra, psicoterapeuta, psicologo analista, è membro ordinario dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA) e della International Association for Analytical Psychology (IAAP), e membro associato dell’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo (IIPG). Fa parte dei comitati di redazione delle riviste scientifiche Rivista di Psicologia Analitica ePsicoanalisi e Metodo. Ha lavorato per oltre trent’ anni come psichiatra nel SSN ed è stato professore a contratto di Psicologia Dinamica e di Interventi di Psicoterapia nei corsi di laurea in Psicologia della Scuola di Medicina dell’Università di Pisa. Vive e lavora a Livorno, Piazza G. Matteotti 40, 57126 Livorno.
E-Mail: dr.stefano.carrara@gmail.com