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Supervisione e consulenza psicoanalitiche: promuovere il contenimento e il sostegno nelle istituzioni

Abstract

La supervisione clinica dei casi, affiancata all’analisi personale e ai seminari teorico-tecnici (che insieme ad essa costituiscono il tripode classico del training), è una delle attività su cui si fonda la formazione degli psicoanalisti e degli psicoterapeuti. Da diversi anni, almeno in Italia, ‘supervisione’ è però anche il nome che viene dato a una pratica di lavoro di gruppo, a cavallo tra il compito formativo e quello consulenziale, che si svolge nelle istituzioni socio-sanitarie e che ha come destinatario non un singolo professionista, ma tutta l’équipe curante, un gruppo di lavoro oggi sempre più eterogeneo professionalmente e culturalmente, e sempre più spesso impegnato in un sistema a rete di servizi intercorrelati. Gli AA di questo contributo hanno sviluppato le loro ipotesi pensando alle proprie attività di supervisione/consulenza in varie organizzazioni soprattutto come sistemi di supporto per lo staff. La prima parte del testo si concentra sulle differenze e le analogie fra la supervisione individuale e la “supervisione istituzionale”, con una particolare per le differenze fra supervisione dei casi clinici, formazione esperienziale del gruppo di lavoro e intervento di sviluppo organizzativo; ed anche per i problemi relazionali, le sovrapposizioni e le tensioni conflittuali che si attivano fra funzioni formative, supportive ed amministrative. La seconda parte è dedicata ad un esame sistematico della nozione di contenitore istituzionale, termine che nelle istituzioni sociali e sanitarie è divenuto una specie di magico passe-partout. Gli AA ne esplorano i fattori e le funzioni alla luce di vari modelli concettuali: la nozione winnicottiana di holding, le teorie di Pichon-Rivière e di Bleger su deposito e “contesto” (encuadre), i concetti bioniani di contenitore/contenuto, la migrazione del paradigma relazionale dalla dimensione della frontiera a quella della rete (Abadi). La terza parte, infine, è dedicata a discutere le novità istituzionali create dalla cosiddetta ‘managed care’ – in Italia denominata ‘aziendalizzazione’. Riprendendo le analisi sociologiche di Bauman e di Sennett, gli AA evidenziano come i nuovi modelli organizzativi modifichino l’effetto contenitore delle istituzioni, riducendone la capacità di arginare l’ansia di sistema e di costruire legami, e creando le premesse per dinamiche gruppali e intergruppali turbolente e primitive, in grado di influenzare pesantemente la produttività del sistema e il benessere organizzativo. Le nuove istituzioni sono sempre più spesso organizzazioni senza confini e sistemi reticolari, dove le persone sperimentano una progressiva riduzione degli investimenti relazionali e della lealtà, e dove mobilità e turnover sono così rapidi da ostacolare i processi di attaccamento sano e maturo al lavoro, alle persone e ai valori della cultura organizzativa. Partendo da alcuni casi esemplificativi gli AA esplorano tre ipotesi. La prima è che in contesti sociali sempre più turbolenti, insicuri e a legami deboli la supervisione si costituisca più spesso come una richiesta e un offerta di natura sia ambivalente che ambigua. L’ambivalenza è sostenuta dalla crescente insicurezza ambientale, dalla resistenza ad apprendere e dalla paura della responsabilità legata al sapere (-K, cfr. Bion). L’ambiguità (cfr. Bleger) si manifesta nei confini incerti e confusi tra persona, ruolo e organizzazione, nel dilemma tra controllo e supporto, nell’interfaccia tra professionale e gestionale. La seconda ipotesi è che la supervisione, chiesta o accettata dai manager come modo per “migliorare” l’outcome del proprio sistema e per “controllare” il lavoro dei propri collaboratori, tenda a trasformarsi sotto le pressioni emozionali che gravano sul lavoro d’équipe in un sistema di supporto allo staff. La pressione che grava sui anche supervisori tende a spingerli ad erogare agli operatori quelle “cure” che il sistema ha smesso di offrire loro: il risultato può essere una deriva tra il terapeutico e il sindacale, dove gli operatori si sostituiscono ai clienti o competono avidamente con loro nella richiesta di attenzioni; oppure la fissazione del gruppo nell’assunto di base di dipendenza con l’illusione di trovare nel supervisore un manager idealizzato e una fonte di “salvezza” anziché un agente di “rivelazione” e di insight. Questi sviluppi regressivi possono essere favoriti dagli stessi dirigenti dei servizi, i quali possono richiedere formazione e/o supervisione per i loro collaboratori come un’inconscia domanda di una protesi per la loro leadership debole o minacciata. Una terza ipotesi si riferisce a un cambiamento di paradigma nelle prospettive dei consulenti: la necessità di affrontare il cambiamento come un evento della vita. Nelle nostre società ad elevato sviluppo economico viviamo in un ambiente sempre più instabile e meno sicuro; sistemi a rete, diversità, liquidità e globalizzazione sono visioni della realtà confermate dagli ultimi sviluppi scientifici e tecnologici e con essi intimamente collegate. Gli assunti di base di Bion, come i concetti di one-ness e me-ness, di grandissima utilità per comprendere le dinamiche gruppali, sono costrutti figli di un’altra epoca; oggi i consulenti devono trovare una nuova posizione e nuove competenze che permettano loro di “nuotare” insieme ai loro clienti nell’odierno mare di turbolenze e complessità

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